Ci sono foto che per la loro drammatica potenza evocativa segnano un punto di rottura nelle coscienze delle persone. Scoperchiano davanti ai nostri occhi distratti eventi crudeli, piaghe che affliggono questo martoriato pianeta e nello stesso tempo rivelano tutta la forza e la fragilità di chi le ha scattate. Questa è la storia di una di queste foto.
Un giovane idealista
Ma partiamo da colui che scatterà la foto oggetto di questo articolo: Kevin Carter. Carter nasce a Johannesburg in Sudafrica, il 13 settembre 1960, da una famiglia di origini inglesi, che era fortemente contraria alle leggi dell’apartheid imposte dallo Stato sudafricano dal 1948, dove la minoranza bianca deteneva tutto il potere politico ed economico, attuando un regime basato sulla segregazione razziale in cui la popolazione bianca viveva separata dalla popolazione nera e dalle altre minoranze.
E mentre i bianchi prosperavano, la grande maggioranza delle persone di colore vivevano in condizioni di povertà anche estrema. Fin da adolescente Kevin Carter parteciperà attivamente alle manifestazioni e alla vita politica dei partiti e dei movimenti che si opponevano a quel regime razzista e antidemocratico, nonostante il colore della sua pelle e l’agiatezza della famiglia di provenienza.
Il Bang Bang Club
Assecondando la sua passione per la fotografia diventa un fotoreporter per il Johannesburg Star e insieme ad un gruppo di colleghi e amici documenta la brutalità dell’apertheid. Carter insieme a Greg Marinovich, Ken Oosterbroek e Joao Silva diventa membro del Bang Bang Club. Il nome di questo gruppo di giornalisti e fotografi era ispirato alle condizioni di estremo pericolo nella quale svolgevano il loro mestiere di informatori dell’opinione pubblica.
Il gruppo documentò la crudeltà della guerra civile sudafricana e le atrocità commesse per difendere il regime della segregazione razziale. Questa attività di informazione e documentazione, sempre al limite, spinse il giovane a diventare un consumatore di sostanze stupefacenti e questa dipendenza gli creò seri dissidi con il giornale. Per questo Carter decide di “staccare” dal suo solito ambito d’azione e nel 1993 si recherà in un campo ONU in Sudan, vicino al villaggio di Ayod.
Una foto iconica
Il Sudan è interessato in quel periodo da una terribile carestia che fa letteralmente morire di fame centinaia di persone. Ed è in quel contesto che Carter scatta la foto che lo renderà famoso a livello internazionale e che sia pure in modo brutale, sbatterà in faccia all’opinione pubblica dei paesi ricchi, la piaga della fame nel mondo. L’immagine è terrificante, un bambino malnutrito è accovacciato su un terreno arido e desolato, mentre a pochi passi da lui, un avvoltoio pregusta quello che potrebbe diventare il suo pasto.
Per questa foto Carter fu oggetto di aspre critiche che lui in qualche misura alimentò rifiutandosi di spiegare quello che accadde prima e dopo lo scatto. Ci fu addirittura chi lo accusò di omissione di soccorso per quello che fino al 2011 fu ritenuta una bambina. Lo scandalo mediatico internazionale sorto in seguito a quella foto, non si spense neppure quando il New York Times acquisì i diritti di pubblicazione facendola diventare uno dei simboli della devastazione africana, né quando Carter, nel1994 vinse il Premio Pulitzer.
Una vita spezzata
Il giovane fotoreporter che già in precedenza aveva sofferto di crisi depressive, ripiombò in un profondo stato di sofferenza psichica. Il 18 aprile 1994, durante una spedizione per fotografare un’esplosione di violenza nelle vicinanze di Johannesburg, Ken Oosterbroek, il migliore amico di Kevin, venne ucciso durante una sparatoria mentre l’altro suo collega amico Marinovich riportò gravi ferite, che lo lasciarono vivo ma parzialmente invalido. Kevin Carter apprese la notizia dalla radio in quanto aveva abbandonato la spedizione per partecipare ad un’intervista. La vita gli divenne insopportabile.
Il 27 luglio 1994, Kevin Carter guidò il suo pickup fino ad un parco dove giocava da bambino e lì si intossicò con il monossido di carbonio del tubo di scarico, morendo suicida all’età di 33 anni. Il suo biglietto di addio diceva così:
“Sono depresso, senza telefono e soldi per l’affitto… soldi per il mantenimento dei figli… soldi per i debiti… soldi!!! Sono ossessionato dai ricordi vividi di omicidi e cadaveri, della rabbia e del dolore… di bambini che muoiono di fame o feriti, di pazzi dal grilletto facile, spesso membri della polizia, di carnefici assassini… vado a unirmi a Ken se sono fortunato.”
Il bambino della foto
Per sapere il destino di quel bambino immortalato dallo scatto di Carter, l’opinione pubblica internazionale dovette attendere fino al 2011, quando un’inchiesta del quotidiano spagnolo El Mundo, solleverà il velo sul destino di quell’esserino indifeso.
Prima di tutto non si trattava di una bambina come fino ad allora si era supposto ma di un maschietto che di nome faceva Kong Nyong. Kong viene salvato dai medici del campo ONU, riuscendo a sopravvivere alla carestia fino all’età di diciassette anni, quando una febbre lo uccise, stroncando un’ancora giovanissima vita.
Fonti:
Alcune voci di Wikipedia
Vitale, Roberto. Le foto che hanno segnato un’epoca