Storia

La tragica ritirata da Kabul durante la prima guerra anglo-afgana

La tragica ritirata da Kabul durante la prima guerra anglo-afgana del gennaio 1842 è ricordata come uno dei disastri militari più catastrofici nella storia britannica. Ciò che iniziò come una spedizione per insediare un sovrano fantoccio si trasformò in una sanguinosa ritirata attraverso le montagne afgane, culminando nell’annientamento quasi totale di una colonna di oltre 16.000 soldati e civili.

L’antefatto

Nel 1839, la Gran Bretagna, temendo l’espansione dell’influenza russa in Asia centrale, invase l’Afghanistan per deporre il sovrano Dost Mohammed Khan e sostituirlo con l’ex re Shah Shuja al-Mulk, considerato più docile agli interessi britannici. Inizialmente, l’operazione ebbe successo e Kabul fu occupata. Tuttavia, l’occupazione britannica si rivelò presto impopolare tra la popolazione afgana, che vedeva Shah Shuja come un burattino straniero.

Per gestire dal punto di vista diplomatico una situazione sempre più esplosiva, nel settembre del 1841 fu inviato a Kabul, William Hay Macnaghten, governatore di Bombay. Macnagheten per tenere buoni i signori della guerra afgani che di fatto assediavano Kabul adottò una politica di sussidi volta ad assicurare una sostanziale non belligeranza.  Quando il costo a carico dell’erario indiano divenne eccessivo e i sussidi furono ridotti, questa politica portò allo scoppio di un’insurrezione.

Un Comandante inadeguato

Tra i tanti errori compiuti dai britannici durante l’occupazione di Kabul, uno dei principali fu la scelta del sito dove acquartierare le truppe. Su pressione di Shah Shuja Durrani, gli inglesi rinunciarono all’occupazione della fortezza di Bala Hissar e stabilirono i loro accampamenti militari a 2,5 km dalla città. Questa decisione, presa per motivi diplomatici, si sarebbe rivelata un grave errore militare, poiché la guarnigione si venne a trovare in una posizione sostanzialmente indifendibile.

Con la fine della politica dei sussidi la situazione a Kabul si deteriorò. Le tribù afgane si ribellarono all’autorità britannica, e l’esercito occupante, composto da soldati britannici e indiani della Compagnia delle Indie Orientali, si ritrovò sempre più isolato e con linee di rifornimento precarie. L’alto comando britannico, guidato dal generale William Elphinstone, mostrò indecisione e una grave sottovalutazione della forza e della determinazione dei suoi avversari.

Alla fine del 1841, la situazione era diventata insostenibile. Le forze britanniche a Kabul, che comprendevano circa 4.500 soldati e un numero ancora maggiore di civili, tra cui famiglie dei soldati e personale di supporto, erano assediate e a corto di provviste. Le trattative con i capi afgani portarono a un accordo per una ritirata “sicura” verso Jalalabad, distante circa 140 chilometri.

La rivolta

Il 2 novembre 1841 Wazir Akbar Khan diede il via a una rivolta generale. I cittadini di Kabul assaltarono la casa di Sir Alexander Burnes, uno dei più importanti fra i rappresentanti politici britannici in Afghanistan, e uccisero lui e il personale al suo servizio. Sia Elphinstone che Macnaghten furono colti di sorpresa e non intrapresero alcuna azione in risposta all’uccisione di Burnes, incoraggiando così ulteriori rivolte.

Pochi giorni dopo gli insorti afgani occuparono una collina che dominava gli accampamenti britannici e iniziarono a bombardarli con due cannoni. Truppe britanniche fecero una sortita per scacciarle, ma gli afghani inflissero loro pesanti perdite utilizzando i loro fucili jezail dall’altura. Le truppe della Compagnia delle Indie Orientali fuggirono lasciando dietro di sé 300 feriti, destinati ad essere uccisi.

Inutile fu la richiesta di rinforzi che Elphistone chiese al Maggior Generale Nott, a Kandahar. I passi montani pesantemente innevate bloccarono ogni tentativo di inviare rinforzi a Kabul.

Punto di non ritorno

A questo punto il comando britannico a Kabul decise che non era possibile rimanere a Kabul. Macnaghten, rendendosi conto della situazione disperata, cercò di negoziare con Wazir Akbar Khan un accordo per il ritiro delle truppe e dei civili britannici e indiani ancora a Kabul. Il 23 dicembre 1841 i capi afghani invitarono Macnaghten a prendere un tè per discutere della situazione. La delegazione britannica, appena smontò da cavallo, fu sequestrata e Macnaghten e un aiutante furono uccisi. Il corpo di Macnaghten fu mutilato e trascinato per le strade di Kabul.

Elphistone stava perdendo il controllo della situazione e il morale delle sue truppe era ormai bassissimo. Decise così, sulla base di accordi della cui fragilità, un ufficiale più lucido e capace del cinquantanovenne Comandante delle truppe britanniche si sarebbe senz’altro accorto, di evacuare la città.

La ritirata del massacro

Il 6 gennaio 1842, la colonna britannica iniziò la sua disastrosa ritirata. Si trattava di un serpentone lunghissimo, costituito da 700 soldati britanni e 4.000 indiani arruolati dalla Compagnia delle Indie Orientali e circa 12.000 civili (famiglie indiane e britanniche, i loro domestici e i lavoratori civili).

Immediatamente, l’esercito si trovò a dover affrontare condizioni ambientali estreme, con temperature gelide e neve alta, unite agli attacchi incessanti delle tribù afgane ostili. Il passo di Khoord Kabul, una stretta gola tra le montagne, si trasformò in una trappola mortale. Le truppe britanniche, lente e disorganizzate a causa del gran numero di civili al seguito, furono bersagliate da cecchini appostati sulle alture.

Nei giorni successivi, la colonna continuò a subire pesanti perdite. La leadership britannica si dimostrò incapace di gestire la situazione, e il morale delle truppe crollò. La mancanza di cibo, acqua e riparo, unita alla costante minaccia di attacchi, decimò i ranghi.

Io sono l’esercito

L’episodio più tragico avvenne nel passo di Gandamak, dove un ultimo gruppo di soldati britannici, esausti e senza munizioni, fu massacrato. Solo un pugno di uomini riuscì a raggiungere Jalalabad; il più famoso di questi fu il dottor William Brydon, la cui storia divenne un simbolo della catastrofe.

Cinque giorni dopo di tutto l’esercito britannico rimanevano soltanto 200 uomini male armati, con il morale a pezzi e quasi privi di munizioni. Alla fine a Jalalabad si presentò, ferito e stremato, su un cavallo ormai spompato, un solo ufficiale, l’assitente chirurgo William Brydon.

Brydon aveva dovuto lottare per la sua vita contro un gruppo di cavalieri afghani. Dopo essere sfuggito ad un inseguitore, fu individuato da un ufficiale di stato maggiore che si trovava sulle mura di Jalalabad e che inviò immediatamente dei cavalieri a soccorrere l’esausto chirurgo. A Brydon fu chiesto cosa fosse successo all’esercito, e lui rispose: “Io sono l’esercito”

L’armata del castigo

Furiosa e umiliata per l’annientamento della colonna comandata da Elphistone (morto in prigionia nell’aprile 1842), la Gran Bretagna qualche mese dopo costituì una forza militare di 14.000 uomini che fu chiamata l’Armata del Castigo. Nel settembre del 1842 riconquistarono il passo Kyber e Kabul infliggendo agli afgani una sconfitta decisiva.

Salvata la faccia però gli inglesi capirono che non era il caso di occupare direttamente il paese. Si ritirarono e da allora si limitarono a mantenere un “controllo esterno” sull’Afghanistan affidandosi a politici e signori della guerra locali, attuando la rodata politica del dividi et impera.

Conclusione

La ritirata da Kabul fu un’umiliazione cocente per l’Impero Britannico, minando la sua reputazione di invincibilità. Le conseguenze furono significative: la Gran Bretagna fu costretta a rivedere la sua politica in Afghanistan e a riconoscere nuovamente Dost Mohammed Khan come sovrano.

La disastrosa ritirata da Kabul rimane un monito sui pericoli dell’arroganza imperiale, della sottovalutazione del nemico e della mancata comprensione delle dinamiche locali. La memoria di questa disfatta continuò a influenzare la politica britannica in Afghanistan per molti anni a venire.

Per saperne di più:

William George Keith Elphinstone

Natale Seremia

Appassionato da sempre di storia e scienza. Divoratore seriale di libri e fumetti. Blogger di divulgazione scientifica e storica per diletto. Diversamente giovane. Detesto complottisti e fomentatori di fake news e come diceva il buon Albert: "Solo due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, riguardo l’universo ho ancora dei dubbi."

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