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La Battaglia dello Jutland

Di tutti gli scontri della Prima Guerra Mondiale, nessuno fu più atteso, più costoso e più paradossale di quello avvenuto nel Mare del Nord il 31 maggio 1916.

Era un pomeriggio grigio e nebbioso quando il destino dell’Impero Britannico si trovò in bilico sulle acque fredde al largo della Danimarca. Per anni, il mondo aveva trattenuto il respiro in attesa del Der Tag, il giorno in cui i due colossi navali dell’epoca, la Royal Navy britannica e la Kaiserliche Marine tedesca, si sarebbero finalmente scontrati per il dominio degli oceani. Quello scontro, passato alla storia come la Battaglia dello Jutland, non fu solo un duello di cannoni, ma il punto di rottura di tensioni politiche ed economiche che stavano strangolando l’Europa.

L’Assedio Invisibile

Per comprendere la ferocia dello scontro bisogna guardare oltre le corazzate, verso le cucine vuote di Berlino e Amburgo. Nel 1916, la strategia britannica era semplice e brutale: un blocco navale a distanza che impediva l’arrivo di materie prime e cibo in Germania. L’economia tedesca stava soffocando. La Hochseeflotte, la flotta d’alto mare costata miliardi di marchi e orgoglio del Kaiser Guglielmo II, aveva il compito imperativo di spezzare questo assedio.

Il piano dell’ammiraglio tedesco Reinhard Scheer, un comandante aggressivo e propenso al rischio, era un’imboscata classica: attirare una porzione isolata della flotta inglese per annientarla, riducendo così il divario numerico. Ma Scheer non sapeva che il suo avversario leggeva la sua corrispondenza. La Room 40 dell’intelligence britannica aveva decrittato i codici tedeschi, trasformando la trappola del cacciatore in un appuntamento al buio con l’intera Grand Fleet britannica guidata da Sir John Jellicoe.

Jellicoe, uomo cauto e calcolatore, portava sulle spalle un peso schiacciante. Come disse Winston Churchill, era “l’unico uomo che poteva perdere la guerra in un pomeriggio”. Se la flotta inglese fosse affondata, il blocco sarebbe finito e le rotte vitali per la Gran Bretagna, isola dipendente dalle importazioni, sarebbero state tagliate.

Giganti dai Piedi d’Argilla

Quando le due avanguardie si avvistarono alle 15:48, divenne subito evidente che la quantità non era tutto. La tecnologia navale si era evoluta in due direzioni opposte. Gli inglesi avevano puntato sulla velocità e sulla potenza di fuoco mostruosa dei loro incrociatori da battaglia, sacrificando però la protezione. I tedeschi, consapevoli della loro inferiorità numerica, avevano costruito navi che erano incudini galleggianti: più lente, ma dotate di una compartimentazione stagna superiore e, fattore decisivo, di sistemi di puntamento ottico molto più avanzati.

La differenza fu tragica e immediata. Nei primi minuti di scambio di fuoco, i telemetri tedeschi inquadrarono i bersagli con precisione letale. L’incrociatore britannico Indefatigable e poi il Queen Mary furono colpiti nelle santabarbare. Non affondarono semplicemente: esplosero, vaporizzandosi in colonne di fumo alte centinaia di metri e portando con sé oltre duemila marinai in pochi istanti. Fu in quel momento che l’ammiraglio inglese David Beatty, osservando il disastro dalla sua plancia, pronunciò con flemma britannica la celebre frase: “Sembra che ci sia qualcosa che non va nelle nostre dannate navi oggi”.

La Trappola Perfetta

Nonostante le perdite, Beatty riuscì nel suo intento strategico: attirò la flotta tedesca verso nord, dritto nelle fauci della forza principale di Jellicoe.

Quando Scheer uscì dalla foschia, convinto di inseguire i resti del nemico in fuga, si trovò di fronte l’incubo di ogni marinaio. L’intero orizzonte, da est a ovest, era una linea ininterrotta di fuoco lunga quindici chilometri. Jellicoe aveva eseguito la manovra navale perfetta, il “Taglio della T”.

Le navi inglesi, disposte di fianco, potevano scaricare intere bordate con tutti i cannoni, mentre i tedeschi, arrivando in colonna, potevano rispondere solo con le torrette anteriori. Sotto una pioggia di acciaio, l’ammiraglia tedesca fu martellata. Di fronte all’annientamento totale, Scheer ordinò una manovra disperata, la Gefechtskehrtwendung: una virata simultanea di 180 gradi di tutte le navi. La flotta tedesca eseguì l’ordine all’unisono, come un corpo di ballo, e sparì nella nebbia e nel fumo, riuscendo poi a sfuggire rocambolescamente durante la notte attraverso la retroguardia inglese.

La Battaglia dei Giornali

L’alba del 1° giugno illuminò un mare vuoto, cosparso di detriti e cadaveri. Ma la battaglia continuò sulla terraferma, combattuta a colpi di comunicati stampa. I tedeschi, rientrati per primi in porto, annunciarono al mondo una vittoria sfolgorante. Avevano affondato 115.000 tonnellate di naviglio nemico contro le loro 62.000 perse. Berlino esultò, il Kaiser dichiarò festa nazionale: il mito dell’invincibilità britannica sembrava infranto.

A Londra, l’Ammiragliato commise un disastroso errore di comunicazione, rilasciando un bollettino onesto ma cupo che elencava le pesanti perdite senza enfatizzare la fuga del nemico. L’opinione pubblica inglese fu sotto shock. Tuttavia, nei giorni successivi, la nebbia della propaganda si diradò lasciando spazio alla cruda realtà strategica.

Un giornalista americano dell’epoca riassunse la situazione con una lucidità che gli storici avrebbero poi confermato: “La flotta tedesca ha aggredito il suo carceriere, ma dopo la rissa si trova ancora in prigione”. Era vero. Ventiquattr’ore dopo lo scontro, la flotta britannica era di nuovo in mare, pronta a combattere. La flotta tedesca, seppur tatticamente vincente, era così danneggiata da dover restare in bacino di carenaggio per mesi. Non avrebbero mai più osato sfidare la Royal Navy in campo aperto.

Lo Jutland fu dunque una vittoria tedesca sui tabellini, ma una vittoria strategica decisiva per la Gran Bretagna. Il blocco rimase intatto, condannando la Germania a quella lenta asfissia che l’avrebbe portata alla resa due anni dopo. Capito che la superficie del mare era loro preclusa, i tedeschi si rifugiarono nelle profondità: la fine dello Jutland segnò l’inizio della guerra sottomarina indiscriminata.


Fonti e Bibliografia di riferimento:

  • Massie, Robert K. (2003). “Castles of Steel: Britain, Germany, and the Winning of the Great War at Sea”. Random House.
  • Gordon, Andrew (1996). “The Rules of the Game: Jutland and British Naval Command”. John Murray.
  • Keegan, John (1988). “The Price of Admiralty”. Hutchinson.
  • Corbett, Julian (1920). “Naval Operations, Volume III”. Longmans, Green and Co.

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