Fin dai tempi della teoria biologica dell’evoluzione pubblicata nel 1809 da Jean-Baptiste Pierre Antoine de Monet cavaliere di Lamarck, naturalista, biologo e zoologo francese, che anticiperà di mezzo secolo la teoria dell’evoluzione di Darwin, sappiamo che l’uomo si è evoluto nel corso di centinaia di migliaia di anni.
Noi, insieme ai nostri lontani cugini gli scimpanzé ed i bonobo discendiamo da un comune, misterioso antenato che certamente viveva prevalentemente sugli alberi. La prima grande migrazione umana è quindi il passaggio da una vita arboricola alla superficie terrestre, strettamente connessa ad essa è l’acquisizione del bipedismo ovvero la capacità di camminare su due gambe, a cui seguirà un altro grande step evolutivo: l’encefalizzazione.
Darwin riteneva che questi due processi si fossero sviluppati in contemporanea ma ovviamente il grande scienziato inglese non disponeva degli approfonditi studi sui fossili che nel corso dei decenni successivi hanno ampliato le nostre conoscenze.
Oggi non soltanto sappiamo che il bipedismo ha preceduto l’encefalizzazione ma anche che sia stato propedeutico proprio allo sviluppo di un cervello più grande anche in relazione alla massa corporea dei primi ominidi.
La prima grande migrazione dell’uomo, che porterà a colonizzare l’intero pianeta, nasce quindi dal passaggio dei più sicuri rami degli alberi alla più rischiosa savana nella quale si aggirano i grandi predatori.
Il bipedismo induce nel tempo a profonde trasformazioni morfologiche nei primi uomini, la spina dorsale assume la caratteristica forma ad S, le braccia si accorciano, i piedi si arcuano e le mani libere dai compiti di locomozione si specializzano verso più sofisticate funzioni.
Uno dei primi reperti fossili che testimoniano il bipedismo è stato scoperto nel deserto del Ciad, fra il 2001 ed il 2002, e rappresenta un ominide con un volume cranico di circa 340 cc (contro i 1400 cc attuali), alto probabilmente circa un metro. Non sappiamo se si tratti veramente di un nostro antenato o piuttosto di un ramo morto dell’evoluzione, ciò nondimeno l’Uomo del Sahel, come è stato ribattezzato, probabilmente già camminava sui due piedi.
Non ci sono dubbi che fossero bipedi gli Australopiteci, che circa 4 milioni di anni fa, popolavano la Rift Valley africana. Probabilmente il passaggio al bipedismo è stato favorito dai cambiamenti climatici di questa regione che hanno portato allo sviluppo della savana che interrompeva cosi l’estensione della boscaglia. Per questi primi ominidi quindi attraversare le distese erbacee rappresentava un pericolo che poteva essere mitigato se alzandosi sugli arti inferiori si poteva dare una sbirciatina intorno per avvistare qualche pericoloso carnivoro.
Da li a camminare e correre eretti il passo è stato relativamente breve.
Sarà però solo con il genere Homo che il bipedismo si impone definitivamente e soppianta geneticamente l’andatura a quattro zampe.
Quello che sappiamo con certezza che intorno a 3,7 milioni di anni fa, qualcuno sapeva già camminare correttamente sugli arti inferiori. Lo sappiamo grazie alla scoperta effettuata a Laetoli in Tanzania di una serie di impronte fossili di piedi di ominidi eccezionalmente conservate, impresse su cenere depositatasi in seguito all’eruzione del vicino vulcano Sadiman, situato a 20 km di distanza.
Le impronte sono state lasciate da tre individui che avanzavano cercando di mettere i piedi nell’orma già prodotta sul terreno dal capofila, rendendo così difficile distinguere la traccia originale. Poiché le tracce vanno tutte nella stessa direzione, è stato ipotizzato che i tre individui appartenessero ad uno stesso gruppo familiare che si recava alla sorgente. La marcia in fila indiana, cercando di ricalcare l’impronta del maschio alfa che apriva la fila era adottata probabilmente per ragioni di sicurezza anche se, simulazioni effettuati al computer, mostrano che l’andatura di questi ominidi tutti alti da un metro ad un metro e cinquanta, fosse tranquilla, equivalente a quella di una normale passeggiata.