sabato, Luglio 27

Il lavoro dell’archeologo

L’archeologo è un personaggio perfetto per i film d’avventura ed il cinema ha attinto a piene mani a tutti gli stereotipi di questa professione, abbellendola di mistero ed azione al punto da produrre innumerevoli blockbuster.

Tutti ricordiamo l’avventuriero archeologo per eccellenza immortalato nella saga di Indiana Jones per il  volto di Harrison Ford, ma potremmo citare il Dirk Pitt di Sahara, interpretato da un giovane Matthew McConaughey oppure il Jack Colton (Michael Douglas) de All’inseguimento della pietra verde o il mitico Allan Quatermain in Le Miniere di Re Salomone, senza dimenticare l’eroina prestata dai videogame Lara Croft (Angelina Jolie) in Tomb Raider.

In realtà il mestiere di archeologo è basato su una rigida disciplina scientifica e su una metodologia di ricerca che lasciano poco spazio a scazzottate con indigeni crudeli, templi pieni di insidie e mistero, giungle popolate da pericoli ad ogni pié sospinto. La prima cosa che un archeologo deve sapere è in quale sito scavare. Ed a questo proposito cosa si intende per sito archeologico?

Un sito può arrivare ad avere dimensioni ridottissime, quali «una manciata di manufatti appartenuti a cacciatori-raccoglitori», oppure colossali come l’antica città di Teotihuacán in Messico; si tratta in sostanza di «luoghi dove esistono tracce di una passata attività umana […] solitamente indicata dalla presenza di manufatti».

E per manufatto si intende qualunque oggetto prodotto o modificato dalla presenza umana. Tale categoria comprende tutto, dai primi utensili in pietra alle terraglie, le armi, i gioielli, gli indumenti e sostanzialmente ogni altro oggetto portatile che l’uomo possa realizzare. Tutto quello che non è asportabile senza rovinarlo, come ad esempio una camera funeraria, un fossato, una capanna o un altare viene chiamata in gergo feature.

Per trovare il sito giusto dove scavare l’archeologo deve fare affidamento sulla ricognizione archeologica che può assumere varie modalità: come le ricognizioni di superficie o aeree, quelle a campione e il telerilevamento. Il metodo più tradizionale è la ricognizione di superficie che si effettua esplorando a piedi una certa area in cerca di segni che possano richiamare antichi insediamenti o manufatti umani. Nel caso di territori particolarmente difficili come quelli coperti da foreste la ricognizione di superficie è affiancata da una serie di piccoli scavi fatti per sondare la presenza sotto la superficie di resti interessanti.

A volte si preferisce partire dalla ricognizione aerea almeno nelle zone in cui gli antichi abitanti hanno innalzato edifici o altrimenti lasciato rovine in materiali durevoli che possano essere ancora individuabili. Il tutto può variare dal semplice acquisto di fotografie aeree o immagini militari desecretati da società specializzate fino ai ben più complicati e costosi rilevamenti aerei con tecnologia LiDar che utilizzando  fasci laser è particolarmente  utile nelle  zone  ricoperte di foreste del centro e del Sud  America. 

Sempre di più si usano poi le immagini satellitari per circoscrivere siti particolarmente interessanti grazie anche all’uso combinato della tomografia ad infrarosso. È così che nel 1992 è stata scoperta la città perduta di Ubar, nell’Oman. Lo shuttle Endeavour aveva raccolto un’immagine della zona e gli archeologi hanno potuto individuare il punto in cui convergevano gli antichi sentieri. Successivamente hanno intrapreso scavi sul posto e scoperto il sito antico.

Negli ultimi anni, gli archeologi hanno ulteriormente ampliato la gamma degli strumenti a disposizione aggiungendovi i droni commerciali, e facendoli volare un po’ come gli aeromodellisti con i loro aeroplani, al doppio scopo di trovare e documentare i siti nonché di riscontrare eventuali razzie. Con i droni è possibile scattare foto sia da bassa che da alta quota, inviando i risultati direttamente a un computer per successive elaborazioni e analisi.

Tutte queste tecniche però abbisognano quasi sempre della conferma sul campo ovvero di una ricognizione mirata che l’archeologo fa nel sito mappato utilizzando strumenti come i magnetometri o di georadar o di altre forme di telerilevamento.

Soltanto quando la ricognizione archeologica è terminata con esito positivo si passa alla vera e propria fase di scavo per riportare alla luce vestigia e manufatti del passato.

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