venerdì, Maggio 3

La nascita dei reparti di terapia intensiva

Come abbiamo accennato in alcuni articoli precedenti dobbiamo alla poliomielite una serie di innovazioni e cambiamenti in campo sanitario, politico e sociale come raramente è accaduto nella storia della medicina. Un altro progresso indotto dalle conseguenze di questa infezione molto temuta è stata la nascita delle terapie intensive, il cui ruolo fondamentale è stato impresso nella coscienza di ognuno di noi in seguito alla pandemia di Covid19, soprattutto nel terribile primo anno del contagio, il 2020.

I primi strumenti di ventilazione assistita

Nei primi anni del ventesimo secolo per chi veniva infettato dal poliovirus e riportava una compromissione della capacità respiratoria ed in particolare per chi era colpito da una paralisi bulbare (causata da una lesione del bulbo, il tratto del tronco encefalico che controlla funzioni come la respirazione e la contrazione cardiaca) le cose si mettevano molto male.

Gli strumenti messi a punto per respirare al posto del paziente, verso la fine dell’Ottocento, erano rivolti soprattutto alle vittime di soffocamento e di annegamento ed avevano un limite inesorabile: dovevano essere azionati manualmente e quindi non potevano servire per trattamenti troppo lunghi.

Durante le prime epidemie di polio quindi i medici (e i familiari) dei bambini colpiti erano impotenti ed erano costretti ad assistere, senza alternative adeguate, alla morte per soffocamento dei giovani pazienti.

Il polmone d’acciaio

La svolta avviene nel 1929 quando Philip Drinker e Louis Shaw, un ingegnere e un fisiologo polmonare dell’Università di Harvard, misero a punto un respiratore che potesse sfruttare una nuova fonte d’energia: l’elettricità. I due presentarono un apparato metallico nel quale il paziente veniva coricato facendo sporgere solo la testa: una pompa collegata alla corrente sviluppava all’interno dell’apparecchio una pressione negativa che induceva l’aria esterna a entrare passivamente nei polmoni del paziente: era nato il polmone d’acciaio.

Il primo paziente trattato con questo nuovo strumento, che seguendo una tradizione secolare era stato testato prima di tutti sugli stessi Drinker e Shaw, fu una bambina di otto anni colpita dalla poliomielite che purtroppo morì sei giorni dopo essere stata “incapsulata” nel polmone d’acciaio per il sopraggiungere di una polmonite batterica. Nonostante il decesso, il caso costituì un autentico successo, mai prima di allora un soggetto colpito da paralisi respiratoria era riuscito a sopravvivere per così tanti giorni.

Negli anni seguenti molte persone furono salvate dal polmone d’acciaio recuperando una parte della mobilità e della funzionalità respiratoria, ma molti altri morirono. Questo macchinario andava infatti adoperato da personale esperto per evitare che una pressione eccessiva danneggiasse irreparabilmente i tessuti polmonari; inoltre, se i pazienti affetti da paralisi spinale potevano sperare in una ripresa della propria autonomia nel tempo, chi veniva colpito da una paralisi bulbare non aveva alcun margine di recupero.

Un dilemma etico

Questo significava nel migliore dei casi dipendere per tutta la vita da un’assistenza respiratoria artificiale e nel peggiore dei casi, il decesso per sopravvenute complicazioni cardiache. Per molto tempo infuriò un dibattito etico sul dilemma se era il caso o meno di impegnare le scarse risorse strumentali (i polmoni d’acciaio) per sostenere una bassissima qualità della vita a soggetti senza alcuna speranza di miglioramento. L’orientamento clinico scelse nei fatti l’obbligo di assistere tutti, anche al fine di evitare indicibili sofferenze.

L’uso del polmone d’acciaio per quanto strumento molto costoso e prodotto da poche aziende si diffuse gradualmente in tutto l’occidente. In Italia, ad esempio, ancora nel 1954 la situazione era drammatica. In seguito ad un focolaio epidemico a Cagliari, un’interrogazione parlamentare del tempo all’Alto Commissario per l’Igiene e la Sanità (all’epoca non esisteva ancora un ministero per la sanità o la salute come si dice oggi) chiedeva se non era il caso di inviare almeno un secondo polmone d’acciaio in Sardegna!

L’intuizione di Ibsen

Proprio in quegli anni però avvenne una svolta nell’ambito della ventilazione artificiale. Nel 1952 Copenaghen venne sconvolta da una gravissima epidemia di polio, l’ospedale per le malattie infettive (il Blegdam Hospital) disponeva ancora di un solo polmone d’acciaio e di 6 respiratori “a corazza” che funzionavano secondo lo stesso principio della pressione negativa. Una dotazione assolutamente inadeguata per assistere le circa 300 persone affette da paralisi respiratoria che affollarono in poche settimane l’ospedale.

Grazie all’intuizione dell’anestesista Björn Ibsen ci si ispirò alle moderne tecniche di anestesiologia che facevano uso anche della ventilazione a pressione positiva, nella quale “palloncini” di gomma (i palloni AMBU) o altri strumenti, applicati tramite intubazione o tracheotomia, pompavano attivamente l’aria all’interno dei polmoni.

La nascita della terapia intensiva

L’ospedale organizzò squadre di centinaia di studenti di medicina, ognuno con l’importante compito di pompare l’aria nella trachea di un paziente: ogni giorno 250 studenti si davano il cambio (insieme a 35-40 medici) per tenere in vita fino a 70 pazienti a settimana. Fu così che la mortalità calcolata nel corso di quell’epidemia calò dall’80 al 40%.

La strada per respiratori a pressione positiva era aperta e lentamente iniziò il declino dei polmoni d’acciaio. Non si trattò però soltanto di una rivoluzione tecnologica. Un anno dopo, Ibsen che aveva acquisito una posizione di autorevolezza e prestigio nel suo ospedale, grazie alla sua intuizione, pensò di modificare l’organizzazione ospedaliera creando un reparto ad hoc nel quale ogni paziente che necessitasse di respirazione assistita disponesse di un infermiere dedicato e venisse seguito in maniera multidisciplinare. Nasce così, nel 1953, nella piccola Danimarca la prima unità di terapia intensiva della storia della medicina.

Per saperne di più:

La poliomielite

Fonti:

La malattia da 10 centesimi di A. Collino

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