Da quando oltre trenta anni fa è stata ipotizzata l’esistenza della materia oscura come spiegazione del perché le galassie rimangano intatte anziché disgregarsi, come ci si aspetterebbe sulla base della quantità di massa osservabile che contengono e della loro velocità di rotazione tutti gli esperimenti volti a rilevarla e darle quindi concretezza scientifica sono falliti.
Ultimi insuccessi in ordine cronologico quelli riportati il 30 ottobre scorso in due contesti scientifici profondamente diversi: l’esperimento XENON1T, al Laboratorio nazionale del Gran Sasso in Italia ed il PandaX-II experiment in Cina.
La ricerca delle WIMP, Weakly Interacting Massive Particle (particelle massive debolmente interagenti), che indica un’ipotetica particella dotata di massa che interagisce debolmente con la materia normale solo tramite la gravità e la forza nucleare debole insomma batte in testa.
L’esistenza di queste particelle si adatta al modo in cui i fisici pensano che si sia evoluto l’universo e all’abbondanza relativa della materia. Inoltre, le proprietà delle WIMP corrisponderebbero a quelle previste da un ramo della fisica delle particelle chiamato supersimmetria.
La frustrazione che inizia a serpeggiare però tra i ricercatori sta ridando fiato sia a chi contesta radicalmente l’esistenza della materia oscura ipotizzando versioni modificate della gravità che negano la necessità della materia oscura per spiegare la mancata disgregazione delle galassie sia a coloro che prospettano essa sia costituita da particelle esotiche dette assioni, simili a strani fotoni massicci.
Adesso tutta la partita sembra essere affidata ad una nuova generazione di rilevatori in fase di costruzione basati sullo stesso principio dell’esperimento italiano XENON1T.
Certo è che se entro due o tre anni non si riuscirà ad individuare le WIMP il modello cosmologico dell’Universo fin qui più accreditato rischia di crollare come un castello di carte.