E’ una celebrazione dimessa e blindata quella che si sta svolgendo a Roma per il 60mo Anniversario dei Trattati di Roma. Il lungo inverno del processo di integrazione europeo sembra stia ineluttabilmente sfociando in una vera e propria glaciazione. I Ventisette Capi di Stato e di Governo, da poco orfani della Gran Bretagna che tra due giorni invocherà l’art. 50 dei Trattati per l’uscita dall’Ue, paiono come gli ospiti del Titanic che ballano e bevono mentre la nave sta per infrangersi contro il gigantesco iceberg di un euroscetticismo dilagante.
La dichiarazione che scaturirà al termine di questa giornata, sarà affidata a espressioni di facciata di fiducia sulle sorti della più originale costruzione sovranazionale concepita dall’uomo ed a impegni quanto mai generici.
E’ questa la strada per non essere travolti dagli schieramenti sempre più agguerriti di coloro che pensano che il ritorno allo Stato Nazionale rappresenti la cosa migliore per i cittadini?
Non credo. D’altra parte nell’immaginario collettivo di una pubblica opinione nella quale la fiducia nelle istituzioni comunitarie (secondo un recente sondaggio Deimos in Italia è scesa dal 73% del 1998 al 34 del 2017) sta letteralmente crollando, da una parte ci sono le Istituzioni europee e l’euroburocrazia e dall’altra i reali interessi dei cittadini.
Ovviamente è una percezione largamente falsa, basterebbe osservare che l’Unione Europea è ancora, in larghissima misura, l’espressione degli Stati e che quindi se esistono dei colpevoli essi vanno cercati prima di tutto nei Governi nazionali e nella facile demagogia che attuano, scaricare sull’Ue la loro incapacità nel dare risposte convincenti ai bisogni dei cittadini.
La risposta quindi è semplice ed allo stesso tempo politicamente complessa e rischiosa. Far sentire di nuovo i cittadini protagonisti di un vero e democratico processo di integrazione.
Democratico si, perchè il gap di democrazia nelle istituzioni comunitarie è ancora troppo ampio. Non basta votare un Parlamento che per altro ha poteri molto definiti e delimitati, occorre e si può fare molto di piu’.
Ma forse non si puo’ fare, nello stesso momento e con la stessa intensità con tutti e ventisette paesi membri.
Per questo, a mio avviso, un’Europa a due velocità rappresenta ancora la scelta più concreta per costruire un soggetto politico democratico a cui cedere ulteriori e significative quote di sovranità nazionale, ad iniziare dalla politica estera e di difesa, per passare attraverso le politiche per la sicurezza e la gestione veramente unitarie delle dinamiche migratorie.
Potrebbero essere i sei paesi fondatori, quelli che nel 1957 diedero vita ad una speranza per un’Europa unita e migliore, a fare da apripista, ma se analizziamo il momento politico di Italia, Francia e Germania e la qualità dei loro esecutivi non c’è da essere ottimisti.