lunedì, Maggio 20

Come si arrivò alla domesticazione delle piante

Sono poche le piante ed i frutti selvatici che sono commestibili o comunque hanno un gradevole sapore in natura. Fragole e lamponi selvatici, pur essendo più piccoli di quelli in commercio e di aspetto non così regolare e gradevole, non sono soltanto commestibili ma sono anche di ottimo sapore. Alcuni funghi, ovviamente non quelli velenosi, possono essere mangiati, ma molte altre piante sono invece assolutamente non commestibili ed a volte pesantemente tossiche.

E’ il caso delle mandorle selvatiche che contengono tanto cianuro che ne bastano una manciata per uccidere un uomo. E questo è soltanto uno dei tantissimi esempi che si potrebbero fare. Eppure gran parte delle piante che coltiviamo un tempo erano selvatiche, come si è arrivati allora alla loro domesticazione?

La domesticazione è quel processo in cui la specie vegetale in questione viene fatta crescere dall’uomo – in maniera piú o meno consapevole – in modo da farle subire quelle mutazioni genetiche che la rendono piú utile e adatta ad essere consumata.

Oggi questo è un processo comune e molto diffuso che si avvale della genetica e delle conoscenze accumulate nel corso dei secoli. Ma 11.000 anni fa quando nasce l’agricoltura l’ingegneria genetica non era certo un patrimonio dei primi agricoltori.

I primi contadini che popolarono la Mezzaluna fertile 11.000 anni fa erano del tutto inconsapevoli delle caratteristiche delle piante che spontaneamente la natura metteva loro a disposizione. Quali cambiamenti si dovettero apportare per rendere una pianta selvatica piú grande o meno tossica? Non tutte le specie, poi, sono state domesticate allo stesso tempo: i piselli si cominciarono a coltivare attorno all’8000 a. C., le olive nel 4000 a. C., le fragole nel Medioevo e le noci pecan solo nel 1846.

Per fare un po’ di luce su questo apparente mistero partiamo da come le piante preservano la loro discendenza. Contrariamente agli animali che possono muoversi è quindi scegliere il luogo dove fare un nido o dove far nascere una cucciolata, le piante devono trovare un “ospite” che trasporti i semi verso nuove zone di territorio.

Alcune specie utilizzano il vento o l’acqua a questo scopo, altre invece devono convincere con furbizia un animale a fargli da vettore. In questo caso la soluzione migliore è quella in cui il seme è avvolto da un succoso e appetitoso frutto, spesso molto colorato e profumato per attrarre l’attenzione dell’animale.

Una volta ingerito da un’animale percorre una certa distanza “a bordo dell’ospite” che ad un certo punto defeca lontano dalla pianta madre. In questo modo alcuni semi percorrono anche centinaia di chilometri. Questi semi resistono ai processi digestivi dell’animale e sono in grado di riprodurre la pianta una volta “depositati” a terra dopo l’evacuazione.

Un caso esemplare è costituito dalle fragole selvatiche, quando non sono ancora mature e pronte a germinare il frutto che le contiene è verde, duro e acido. Poi, al momento giusto diventa dolce, tenero e di un bel rosso brillante. E’ il segnale che scatena molti uccelli che ne sono ghiotti a beccarli e trasportare i semi anche molto distante dal punto originario.

Si tratta della vecchia selezione naturale. Niente di consapevole ovviamente né da parte delle fragole e tanto meno degli uccelli. E probabile che questo processo sia stato alla base dei primi passi verso l’agricoltura. Alcune piante mutarono in modo da risultare più gradite e commestibili per l’uomo che divenne inizialmente in modo del tutto inconsapevole il vettore che aiutava a disperdere meglio i semi nell’ambiente. Ed i luoghi dove i nostri antenati facevano i loro bisogni possono aver costituito i primi “laboratori” genetici della nascente agricoltura.

Oltre alle latrine però i primi contadini trasportavano i semi durante il tragitto verso le loro capanne. I semi di cui parliamo però necessariamente erano quelle delle piante commestibili di cui il nostro progenitore si cibava. I primi agricoltori decisero di piantare i semi più grossi delle piante di cui si cibavano nella convinzione che piantare i semi dei frutti piú grossi dà come risultato, con grande probabilità, altre piante dai frutti grossi.

Questo processo ha portato dopo millenni a dimensioni molto maggiori nei piselli ed addirittura a triplicare la dimensione delle mele. Le pannocchie del mais selvatico sono lunghe poco piú di un centimetro, in Messico si era arrivati già nel 1500 a pannocchie di 15 centimetri, e alcune varietà moderne raggiungono i 40-45 centimetri.

Ma se questo è stato il processo naturale per le piante commestibili e gradevoli come può essere avvenuta la domesticazione, di una pianta amarissima e tossica come la mandorla? Quasi tutte le mandorle selvatiche contengono un composto chimico assai amaro chiamato amigdalina, che a sua volta si scinde e dà luogo al velenosissimo cianuro. Quelle che quasi certamente è avvenuto è la nascita di un seme dove è avvenuta una mutazione occasionale in un gene che impedisce al mandorlo di sintetizzare l’amigdalina. Nei boschi, questi alberi sfortunati muoiono senza progenie, perché gli uccelli di solito si mangiano tutti i semi.

Uno dei primi agricoltori si è accorto di questa mutazione e inizialmente in modo inconsapevole e poi deliberatamente ha deciso di piantare i semi di questa mandorla del tutto commestibile e gradevole. Le mandorle selvatiche sono state rinvenute in siti greci intorno al 8.000 a.e.v., tremila anni dopo circa si sono trovate tracce di mandorle domestiche sulle coste orientali del Mediterraneo.

Le mandorle non sono l’unico esempio di specie selvatiche immangiabili e/o tossiche che l’uomo ha domesticato rendendole commestibili, altri esempi sono i fagioli di Lima, i cocomeri, le patate, le melanzane e i cavoli. Il passaggio da specie selvatiche a domestiche non ha riguardato soltanto il sapore e la non tossicità degli alimenti ma anche la loro gradevolezza e persino la facilità nel mangiarli. E’ noto per esempio che nel corso di questo passaggio le banane hanno perso i semi e che molte specie di meloni sono diventati più “carnosi” e con minor contenuto di semi.

Tra i primi frutti e semi oleosi ad essere domesticati nel bacino del Mediterraneo c’è l’olivo, le cui prime colture risalgono al 4.000 a.e.v. Ricapitolando i proto-agricoltori raccolsero qualche esemplare che possedeva caratteristiche evidentemente eccezionali, dovute ad occasionali mutazioni genetiche e lo fecero inconsciamente germinare, compiendo cosí i primi passi sulla strada della domesticazione.

Naturalmente altri fattori hanno contribuito alla domesticazione delle piante. Uno di questi è la dispersione dei semi nell’ambiente. Il caso più tipico è probabilmente quello del pisello che racchiude i semi (la parte commestibile) in un baccello. Questo baccello quando la maturazione è compiuta esplode letteralmente scagliando i semi tutto intorno. Probabilmente delle mutazioni occasionali hanno “bloccato” questo meccanismo in qualche esemplare permettendo all’uomo di raccogliere i baccelli integri e poter quindi seminare successivamente i semi. Altri meccanismi importanti a sostegno del processo di domesticazione sono stati l’inibizione della germinazione e dei meccanismi di riproduzione.

Infine molti cambiamenti furono possibili grazie ad un processo di auto selezione delle piante. Se le condizioni esterne cambiano possono cambiare anche le caratteristiche di una specie per rendere più facile l’adattamento al nuovo contesto. La nascita dell’agricoltura cambiò l’habitat naturale di molte piante. Le prime specie coltivate nella Mezzaluna fertile circa 10 000 anni fa furono il grano, l’orzo e i piselli; tutti derivano da varietà selvatiche molto buone, perché abbondanti, commestibili e di rapida e facile crescita.

Verso il 4.000 a.e.v. fu la volta dell’olivo, dei fichi, dei datteri, del melograno e dell’uva. Si trattava di piante dalla maturazione più lenta e per l’olio ed il vino potevano servire anche fino a dieci anni, per questo la condizione irrinunciabile era la presenza di una popolazione stanziale di lunga durata. Poi fu la volta di specie più difficili da coltivare come come le mele, le pere, le prugne e le ciliege.

Negli stessi secoli si iniziarono a coltivare piante che una volta erano considerate erbacce come la segale, l’avena, i ravanelli, le rape, le bietole, i porri e la lattuga. La storia sinteticamente descritta in queste poche e sommarie righe riguarda la Mezzaluna fertile, la culla dell’agricoltura primordiale di questa parte del mondo, ma presenta numerose analogie anche con gli altri siti indipendenti sparsi in tutto il globo dove l’agricoltura si sviluppò cambiando per sempre la storia dell’umanità.

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