
Dopo aver succintamente esaminato La logica di Aristotele, La politica di Aristotele e L’etica di Aristotele in questo post affronteremo in modo altrettanto non esaustivo la sua concezione della fisica.
L’impianto teorico della fisica aristotelica si basa su due libri strettamente collegati fra loro, la Fisica e il De Coelo. Entrambi ebbero una profonda (e negativa) influenza sulla scienza almeno fino ai tempi di Galileo. Per comprendere la teoria fisica di Aristotele è necessario immergersi nel retroterra culturale dei greci dell’epoca. Per un contemporaneo di Aristotele un oggetto volante non poteva che essere dotato di poteri magici. La stessa teoria meccanica era di fatto osteggiata ed ignorata a parte qualche genio isolato come Democrito o Archimede. Due specie di fenomeni sembravano davvero importanti: i movimenti degli animali e quelli dei corpi celesti.
Per i Greci i movimenti dei corpi celesti differivano da quelli degli animali per la loro regolarità indice della loro perfezione. Inutile sottolineare come questa convinzione fosse strettamente connessa alla concezione antica che sole e luna fossero veri e propri dei.
Ed anche quelli che successivamente non consideravano più i corpi celesti come entità divine non potevano non ammettere che essi fossero mossi da un Essere divino dotato di quell’amore per la semplicità geometrica tipicamente ellenico.
La fisica in Aristotele è quella scienza che i Greci chiamano phusis una parola che si traduce con il termine natura ma che ha un concetto piuttosto diverso da quello che oggi attribuiamo a questa parola. Phusis ha in se il concetto di sviluppo, una ghianda è destinata a svilupparsi in una quercia. Questo è il senso della parola natura in versione aristotelica.
La natura di una cosa, dice Aristotele, è il fine per il quale quella cosa esiste. La natura è all’origine sia del moto che del riposo. La natura è nella forma piuttosto che nella materia. Questa interpretazione della natura divenne un grande ostacolo allo sviluppo della scienza per decine di secoli.
In questo primo libro, Fisica, poi Aristotele passa ad esaminare il concetto di tempo. Egli sostiene che ad una prima analisi il tempo potrebbe non esistere in quanto è fatto da passato e futuro, ed il primo non c’è più mentre il secondo deve ancora accadere. Ma non è cosi sostiene il filosofo di Stagira, il tempo è moto che ammette una numerazione.
Il tempo non può esistere senza l’anima giacché non ci può essere niente da contare se non c’è qualcuno che conta, ed il tempo appunto ammette la numerazione. Nel secondo trattato De Coelo Aristotele espone una teoria semplice ed elegante.
Le cose sotto la Luna sono soggette a nascita e decadimento, quelle sopra la Luna sono increate ed eterne. La terra che è sferica è al centro dell’Universo (da notare che già nel IV secolo avanti Cristo si era perfettamente consapevoli della sfericità del globo terrestre). Nella sfera sub lunare tutto è costituito dai quattro elementi: terra, aria, acqua e fuoco. Un quinto elemento è invece responsabile della generazione dei corpi celesti. Il movimento del quinto elemento è circolare e quindi i cieli sono perfettamente sferici e le regioni superiori sono più divine di quelle inferiori.
Una grande rappresentazione poetica di questa struttura aristotelica la ritroviamo praticamente intatta nella Divina Commedia di Dante.
Come abbiamo più volte scritto all’interno di questo post la teoria fisica aristotelica costituì un grave fardello per lo sviluppo della scienza moderna, Galileo, Copernico e Keplero dovettero combattere contro gli aristotelici del tempo quasi con la stessa intensità di confronto della Chiesa cattolica che osteggiava l’affermarsi della realtà scientifica.