domenica, Maggio 5

L’esperimento Biosphere 2

Se mai l’uomo riuscirà a impiantare una base permanente su Marte, gran parte dell’esistenza dei suoi membri dovrà consumarsi in una struttura chiusa e protetta, data l’inospitalità e le condizioni estreme del pianeta rosso. Anche eventuali avveneristici viaggi verso Marte o ancora più in profondità nel Sistema Solare obbligherebbero l’equipaggio a vivere all’interno di uno spazio chiuso, protetto e autosufficiente.

Quali implicazioni biologiche, logistiche, sociali e psicologiche possono scaturire da una simile costrizione? E quello che cercò, fra l’altro, di appurare quello che è passato alla storia come l’esperimento Biosphere 2.

Siamo nel mese di settembre 1991, otto persone (quattro uomini e quattro donne) si rinchiudono in una struttura di metallo e vetro costruita in Arizona. Si tratta di un ecosistema completo e autosufficiente, al fine di studiare applicazioni per una futura colonizzazione spaziale, ma anche la crescita di piante e animali, i cicli vitali dei più diversi organismi viventi, il riciclo di aria e acqua e così via. Il leader di questo gruppo di volontari e Roy Walford, da sempre sostenitore di una dieta ipocalorica come strada per la longevità. Nessuno dei partecipanti ha una preparazione scientifica, molti vengono da una comunità hippy.

Grande più o meno quanto un campo da calcio, la Biosfera 2 sorge su un’area di 12.700 m² e il suo mantenimento finora è costato oltre 200 milioni di dollari. Al suo interno vi sono una barriera corallina, una foresta di mangrovie, una savana, un deserto, un sistema di campi coltivati e una zona destinata alle abitazioni e ai laboratori. Questa infrastruttura era stata realizzata grazie al contributo di 150 milioni di dollari di uno dei tanti miliardari texani, Ed Bass e riproduceva in miniatura una serie di habitat terrestri. All’inizio dell’esperimento, Biosphere 2 ospitava 3800 specie di piante e animali e simulava cinque diversi ecosistemi terrestri.

Una volta entrati, gli otto volontari vennero sigillati dentro la struttura e da quel momento avrebbero dovuto produrre da soli il proprio cibo, riciclare l’aria e l’acqua, gestire scarti organici e rifiuti, e riuscire a convivere senza generare conflitti interpersonali e senza cadere in depressione. La missione durò due anni dal 1991 al 1993 e da molti fu accusata di scarso rigore scientifico. Una produzione insolitamente alta di anidride carbonica provocò ai “biosferiani” sonnolenza, difficoltà di parola e di movimento e uccise molti animali e piante, mentre alcuni insetti particolarmente tenaci, come scarafaggi e formiche, iniziarono a proliferare. Nel giro di poche settimane dall’inizio dell’isolamento, il livello di ossigeno nell’atmosfera era sceso dal 21% al 14%, grossomodo come nell’aria rarefatta su una montagna di 4000 metri, appena sufficiente per mantenere gli 8 membri dell’equipaggio vita.



La conclusione della missione nel 1993 fu accompagnata da risultanti deludenti e molte polemiche. Si scoprì che per ripristinare livelli di ossigeno ottimali, all’inizio di quell’anno si era proceduto ad un reintegro con iniezioni d’aria dall’esterno. La cosa fu inizialmente negata dai coordinatori dell’esperimento e successivamente ammessa. Inoltre si scoprì che almeno una delle persone era uscita per curare una ferita a un dito e al ritorno aveva introdotto del cibo nella struttura per arricchire una dieta che si era essenzialmente ridotta nella consumazione di piatti a base di barbabietole e patate. Inoltre molti dissidi erano scoppiati all’interno del gruppo, anche sulla modalità di gestione dell’esperimento.

Roy Walford fu uno dei pochi a “guadagnare” dalla partecipazione a questo singolare e sfortunato esperimento, uscito dai due anni di isolamento pubblicò un best seller mondiale intitolato Vivere 120 anni. Morirà nel 2004 dopo aver contratto la SLA (Sclerosi laterale amiotrofica) che secondo alcuni poteva essere stata provocata dagli eccessivi livelli di CO2 respirati da Walford per mesi.

 Una seconda missione nel 1994, durò appena 32 giorni in seguito allo scatenarsi di furiosi conflitti tra i membri dell’esperimento alcuni dei quali sabotarono la biosfera aprendo porte e pannelli, e violandone così l’integrità. Dopo tre mesi la missione è stata interrotta definitivamente dai finanziatori. La Columbia University ha amministrato e utilizzato Biosfera 2 dal 1995 al 2003 per studi scientifici sulla sensibilità climatica. In seguito Biosfera 2 è stata trasformata in un’attrazione turistica. L’edificio non è più pressurizzato dalla metà del 2006. Dal 2011 l’impianto è di proprietà dell’università dell’Arizona che intende costruirci un campus.

Il fallimento di Biosphere 2 ha evidenziato, una volta di più, come creare delle “biosfere artificiali” per sostenere colonie umane su altri pianeti o equipaggi durante lunghi viaggi spaziali sia estremamente complesso sia dal punto di vista biologico che sociale e psicologico. E senza una biosfera artificiale l’ipotesi di qualunque anche anche minima colonizzazione di Marte sarà impraticabile, contrariamente alla Luna nessuna base marziana non autosufficiente può sopravvivere in condizioni di sicurezza minime quando ogni viaggio di almeno sei mesi costituisce uno sforzo economico e logistico proibitivo.

Fonti:

alcune voci di Wikipedia

Su un altro pianeta di A. Balbi

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