domenica, Aprile 28

L’Omero dei poveri: Domenico Pittarini

Domenico Pittarini nasce ad Ancignano, una frazione del Comune di Sandrigo, in provincia di Vicenza, il 28 agosto del 1829, da Domenico Girolamo e Maria Mezzalira. La sua è una famiglia di possidenti terrieri che versa in condizioni economiche critiche, e per questo alla fine riuscirà a mantenere la proprietà di soli 7 campi a Mirabella, una località nel comune di Breganze. Definito l’Omero dei poveri è una delle massime espressioni della poesie dialettale veneta.

Il giovane Pittarini

Domenico è una persona sensibile e filantropica, e questo lo porterà a trovarsi in età matura in grossi guai economici e ad emigrare, morendo povero. Ma di questo scriviamo più avanti. Domenico adolescente consegue la maturità ginnasiale di Grammatica a Bassano, e successivamente, a 14 anni, inizia l’apprendistato presso farmacie vicentine. L’apprendistato di 8 anni gli è necessario per accedere all’Università come studente dello Studio Farmaceutico.  

Nell’autunno del 1851 si iscrive all’Università di Padova dove il 15 febbraio 1854 consegue il diploma di dottore in farmacia. I successivi 4 anni lavora in una farmacia del centro di Vicenza con la modesta qualifica di “giovane di bottega”. Come lui stesso ci testimonia è in questo periodo che la sua produzione poetica diventa significativa: scrive “versi a campane doppie”, cioè in “dialetto” vicentino e in lingua italiana, rubando ore al sonno.

Una poesia in italiano

E sempre in questo periodo che un amore non corrisposto per una sarta modista lo porta a scrivere in italiano il componimento “Ispirazione melanconicache ha carattere romantico, e dimostra le capacità poetiche del Pittarini anche in relazione al contesto poetico e letterario che c’era all’epoca in Italia e in Europa in genere.

Proponiamo qui gli ultimi quattro versi:

Addio loco simpatico e giocondo

io parto: ove me n’ vada ancora non so,

ma ovunque sia, sempre nel cor profondo

scolpita la tua memoria porterò.

E’ dell’anno dopo la lunga composizione in “dialetto” vicentino Le desgrazie de la me velada”, un componimento divertente, ma anche con contenuti profondi che nascono da esperienze dirette dell’autore avute nell’ambito professionale, cioè come farmacista. La concezione “filosofica” di fondo che l’autore vuole esprimere è che ognuno è condizionato dalla categoria a cui appartiene.

La professione di farmacista e il matrimonio

Nel 1858 diventa direttore presso la Farmacia Curti, mentre nel 1859 viene incarcerato con l’accusa di aver favorito la fuga di un emigrante politico. Dopo ventisei giorni viene scarcerato e torna un uomo libero. Cinque anni dopo scrive un componimento a carattere politico che poi pubblicherà nel 1882 con il titolo Echi del passato”.

Nel 1866 sposa Elisabetta Panozzo a Vicenza, e l’anno dopo gli nasce la primogenita, Pia, che morirà però nel 1869 ad appena due anni. Finalmente, due anni dopo, Pittarini apre a Breganze la sua farmacia.

Un poeta del suo tempo

Poco dopo la figlia, il Pittarini perde anche l’anziana madre a Sandrigo,  e questo diventa motivo perché lui abbia sempre meno rapporti con il paese natio. Nel 1870 vede la luce forse la sua opera più importante e significativa: “La politica dei villani”, opera che viene successivamente pubblicata a puntate nel settimanale “El visentin”. In questo stesso periodico satirico e politico, pubblica varie poesie. La più importante da ricordare è Laude a Molvena per il campanile novo, le campane nove, le tragie nove”. E’ una descrizione dell’euforia rurale, integrata con l’innato campanilismo di paese.

Il 1872 è un anno particolarmente produttivo. Il Pittarini fa parte dei circoli borghesi di Breganze e probabilmente a questo fattore biografico è dovuta la pubblicazione di un piccolo poema Le aventure d’un omo galante”, ambientato a Vicenza, scritto interamente nel “dialetto” vicentino parlato dalla borghesia e narrante di incontri prematrimoniali che si hanno durante il periodo del carnevale.

Il Pittarini si dimostra un autore capace di affrontare con la poesia una serie amplia di argomenti legati alla vita del suo tempo. Nella poesia “Alla Musa” egli esalta edonismo e sensualità come scopi della vita; nella poesia “La trata dei cavegi” condanna la moda femminile di innalzare la capigliatura con capelli non propri, comperati o tolti ai morti.

La poesia “Per nozze Scalcerle-Cerato” diventa un inno alla santità del matrimonio e della maternità, ponendo in evidenza come il bacio di una madre al suo bambino, o lo stringerlo al proprio seno sentendosi di abbracciare l’universo intero, sono momenti di massima felicità. Dal 1874 al 1878 diventa farmacista a San Pietro in Gù. In questo periodo dimostra ancora una volta l’ampiezza dei suoi interessi e delle sue conoscenze: traduce in “dialetto” e poi pubblica la celebre commedia “L’Andria” del poeta latino Terenzio. Altre produzioni sono sempre di stampo comico, come “L’Ecatometro” e il “Pantopatico”.

Pittarini, il filantropo

Nel 1878 arriva a Fara per aprire la prima farmacia che il paese abbia mai avuto, e qui la vita del Pittarini prende una piega contraddistinta da sensibilità, filantropia e generosità, unite a debiti che contrae e non riuscirà più a pagare nel giro di alcuni anni. Due anni dopo fonda il periodico letterario Il Summano” in cui pubblica vari suoi componimenti. Una tra questi è  El novo aseno”, una poesia che sa dare tratti di realtà mischiati ad una vena ironica espressa in “dialetto”. Ne proponiamo alcuni versi:

Pien de memoria e pien de intelligenza,

l’è quieto coi paroni e coi stalieri                    

se i gà par lu buon cuore.

Ma se ghe vien usà dei dispiaceri,

studioso dei deliti e de le pene,

un’ora o l’altra el ghe mostra i feri.

Negli ultimi tre versi scopriamo un Pittarini che non condivide la teoria evoluzionista di Darwin.

Ma che bela scoperta in verità

i aseni xe stai sempre convinti

che, nati bestie, bestie i morirà.

La politica dei villani

Nel 1884 ripubblica La politica dei villani”. In questo frangente il termine villano non deve essere visto in accezione dispregiativa, bensì nel suo significato primordiale che deriva dal latino, ed indica l’abitante del villaggio, reso dai latini con il termine villa. In questa edizione scrive una parte introduttiva per spiegare il perché di questa opera (il movente morale): far conoscere la miseria delle popolazioni rurali del suo tempo per rendere la società sensibile ad esse (Pietro Galletto, Veneti illustri dell’ottocento, F.lli Corradin Editori, 2013, pag. 439)

L’opera si propone come un poemetto di 1033 endecasillabi organizzati in sestine, e oltre ad un indubbio valore artistico-letterario, ha valore di fonte storica, in quanto ci presenta in maniera realistica il quadro sociale ed economico del Veneto appena entrato nel Regno d’Italia. La lingua usata è il Veneto come lo si parlava allora nelle campagne, ed esprime l’opposizione del clero e dei contadini al Risorgimento inteso come interesse dei borghesi, mentre queste stesse componenti si dimostrano favorevoli al ritorno degli Asburgo, cioè degli Austriaci, poiché la loro è una burocrazia che funziona e sostanzialmente equa.

L’Omero dei poveri

Riproponiamo alcuni versi tratti dal libro di Pietro Galletto, Veneti illustri dell’ottocento, edito dai F.lli Corradin Editori nel 2013. Alla versione in Veneto “rustico” come si parlava al tempo del Pittarini ed oggi scomparso, facciamo seguire la traduzione fatta da Ferdinando Bandini, Professore di Letteratura all’Università di Padova e, in pratica, uno dei primi scopritori e divulgatori del Pittarini, da lui definito “l’Omero dei poveri”.

Alcuni versi de “La politica dei villani”.

Da despò che vive con tanto bordelo

Egnesto è Vetorgio, che timpi, fardelo!

el sorgo, el fromento dal suto brusà,

el poco che salvo ne gera restà,

egnue le tempeste, vegnesto l’organ,

no ghemo par vivare polenta né pan.

Traduzione: Dappoi che qui con tanto bordello

è  venuto Vittorio, che tempi, fratello!

Il sorgo, il frumento, bruciati dal secco,

il poco che salvo ci era rimasto,

venute le tempeste, venuto l’uragano,

non abbiamo per vivere né polenta né pane.

È Filippo che parla (Zelipo nella lingua usata dal Pittarini), e accusa la grave situazione creatasi dopo l’arrivo di Vittorio Emanuele  II Re d’Italia: per i contadini, nonostante il gran lavoro e l’impegno, tra cambiamenti politici (il gran bordello) e calamità naturali, si prospetta fame e carestia.

Nei prossimi versi c’è la risposta di Bascian (Sebastiano) che accusa apertamente la borghesia della situazione in essere. Prima proponiamo la parte originale in “dialetto”, poi la traduzione in italiano del Prof.re Ferdinando Bandini.

Ma tuto, Zelipo, gnancora sai,

xe i siuri, sti birbi, che vole cussì.

Traduzione: Ma tutto, Filippo, ancora non sapete,

sono i signori, questi birbi, che vogliono così

Un attacco alla borghesia e all’Unità d’Italia

È un attacco diretto alla borghesia che manda i ragazzi da tutte le parti (ricordiamo l’introduzione della ferma militare obbligatoria di 6 anni introdotta dopo il 1866 nel Veneto), fa soffrire la fame e non ha fede, né in Cristo né nei sacerdoti in generale. Zelipo risponde invitando alla speranza, e auspica che quando l’Italia farà la guerra al Papa, arriverà l’imperatore Francesco Giuseppe d’Austria e libererà il Veneto dagli Italiani; quel giorno sarà di festa come lo sono quelli delle sagre.

L’opera, nel momento della sua uscita, non è nemmeno presa in considerazione dalla Letteratura Ufficiale, ottenendo soltanto una critica positiva da parte di Riccardo Dalle Mole, dove si sottolineano più i caratteri artistici del componimento, che non la sua caratura di fonte storica. Dal 1884 al 1888 il Pittarini non produce alcun componimento poetico. È il momento della sua discesa economica definitiva che lo porta in una situazione di povertà tale da scegliere di emigrare in America. Come abbiamo accennato in precedenza, la causa principale è la sua eccessiva filantropia.

Le conseguenze della filantropia e la crisi economica

Fa credito ai contadini, poveri più di lui, perché acquistino zolfo e verderame per proteggere le viti dai parassiti, ma questo gli impedisce di pagare i suoi debiti, contratti soprattutto per acquistare tutti i mobili e gli strumenti utili per far funzionare la farmacia di Fara. Con le sue conoscenze farmaceutiche riesce ad essere un valente dottore per i bambini, sempre gratuitamente. Nel 1888 non ce la fa più ed emigra in Argentina, nella regione desertica di Azul, dove già vive un suo nipote.

Gli anni ’80 del diciannovesimo secolo sono gli anni in cui arrivano nel Veneto gli effetti della crisi economica che già stava coinvolgendo molte parti dell’Europa. Lo sviluppo della ferrovia e delle navi a vapore, ha fatto riversare sul mercato europeo il grano americano e la seta asiatica, molto concorrenziali. I contadini fittavoli, vincolati alla terra da contratti capestro, non ce la fanno più. Si emigra in Brasile e Argentina per tentare di andare a sopravvivere, provocando un vero e proprio esodo transoceanico.

Si calcola che in 15 anni alla fine dell’800, dal Veneto, che allora contava circa 3 milioni di abitanti, siano esodati (partiti) 360 mila persone, cioè più di una persona ogni dieci abitanti. L’abolizione della schiavitù in Brasile con la legge Aurea del 13 maggio 1888, coincide con l’emigrazione in Brasile di 70.000 italiani, in gran parte dal Veneto: i nuovi schiavi non dichiarati!

Pittarini, l’emigrante

Domenico Pittarini parte per l’Argentina il 17 luglio 1888 dal porto di Genova. Si rifà sentire nel Veneto nell’ottobre 1889, con una lettera di varie pagine spedita al Cav. Emilio Rizzetto di San Pietro in Gù. La lettera viene successivamente pubblicata a puntate sulla rivista “Provincia di Vicenza”. La sua titolazione è “Rio Segundo-Cordoba-Ottobre 1889”.

La lettera si divide in due parti. La prima, la più breve è una esplicita denuncia per il “trattamento disumano” che ricevono i viaggiatori di terza classe nella traversata transoceanica. La seconda parte è molto amplia, e contiene una descrizione completa delle sterminate province di Buenos Aires, Rosario e Cordoba, dimostrando ancora una volta le sue capacità letterarie, in quanto riesce ad amalgamare nelle descrizioni elementi del paesaggio, elementi che riguardano le città e i loro abitanti e le immense pianure attorno.

Della prima parte della lettera, dove il Pittarini ancora una volta si mostra sensibile e filantropo verso la vita misera dei propri concittadini, tutti appartenenti al mondo rurale del Veneto, riportiamo alcune parti che riteniamo significative nella descrizione delle condizioni di viaggio che si affrontano per arrivare in America (“Merica, si diceva allora!) e sperare di fuggire dalla miseria.

“…vorrei descriverti la vita a bordo dell’infima classe, ma la penna rifugge dal prestarvisi….Agli infelici di terza, la prosa di contatti schifosi, di scene rivoltanti, di umiliazioni, di privazioni, di noncuranze, di tutto il corteo lacrimevole della miseria….Gli immolati di terza, senza una panca e una sedia qualunque, devono stare in piedi o sdraiati sul pavimento o seppellirsi sotto coperta: alle donne poi non è permesso stare sotto coperta di giorno”. E ancora “…e tutto il basso bestiame di terza (classe), con casse e cassoni, venne inghiottito da un gran barcone che per quanto capace era insufficiente al bisogno”.

La seconda parte della lettera è più significativa per una serie di ragioni, a partire dalla sua lunghezza di alcune pagine manoscritte. Il Pittarini si dimostra sensibile (lo abbiamo detto più volte) alle caratteristiche della sua terra natia e ai suoi abitanti, sottolineando la capacità dei Veneti ad affrontare situazioni drammatiche come sono quelle del Veneto entrato nel Regno d’Italia nel 1866, contraddistinte da miseria, fame e necessità di emigrare per trovare una speranza di sopravvivenza.

Gli ultimi anni

Il viaggio in nave dura quasi un mese, ed il 14 agosto 1888 il Perseo, il piroscafo dove il Pittarini e la moglie viaggiano come “basso bestiame di terza”, getta l’ancora nel porto di Buenos Aires.

Anche qui le cose non cambiano, la miseria rimane miseria. Il Pittarini descrive una notte passata in una “fonda”, cioè in una osteria di bassa leva, con la moglie, in una camera che “pareva una stalla”, “cullati con sussurri continui, col soffitto crollante, in mezzo all’umidità, sopra a un letto o a dir meglio un canile, tanto era lurido e duro, con una porta che non si poteva chiudere, sbattuta dal vento”.

Le descrizioni si rivolgono poi all’incontro commovente con il nipote Giovanni, al viaggio per raggiungere Azul e durato 9 ore su un treno. Il Pittarini descrive meravigliato un paesaggio nuovo, fatto di infiniti spazi e di “spaventosa solitudine”. Si descrive piangente e nostalgico della Patria lasciata…poi, vinto dalla stanchezza si sdraia sul grembo di una nuova madre-patria che lui chiama “oceano di terra”.

Per quasi un secolo del Pittarini si erano perse le tracce dopo il 1889, e lo si era creduto morto nel 1902 nella lontana Argentina. Soltanto le ricerche di Paolo De Caneva hanno permesso di riempire il vuoto biografico del Pittarini esiliato nell’America del Sud. I dati che abbiamo sulla sua vita in Argentina ci dicono che nel 1889 si è mosso ed ha vissuto tra Cordoba e Rio Segundo; nel 1894 è farmacista a El Trebol; il suo nome appare come fondatore della Società di Mutuo Soccorso “Estrelle de Italia” (Stella d’Italia).

Il 20 settembre 1895 si mette in scena un atto teatrale comico del Pittarini in occasione della Festa per l’Unità d’Italia. Il 20 gennaio del 1896 diventa vicepresidente del Consiglio Comunale, mentre il 26 dello stesso mese riceve un elogio dal Presidente dell’Associazione Stella d’Italia; il 21 settembre dello stesso anno scrive un componimento titolato “Dialogo patriottico”.

Nel 1897 è prima ispettore della contabilità dell’associazione di cui è fondatore, Stella d’Italia, successivamente diventa ispettore delle scuole. L’ultima testimonianza storico-letteraria prodotta dal Pittarini, è una lettera scritta al nipote il 7 novembre 1901, tre settimane prima di morire. Ancora una volta traspaiono la sua sensibilità e filantropia verso il genere umano, l’attaccamento verso la sua patria, il Veneto, ma anche dimostra una rettitudine morale profonda, se non sorprendente, in quanto rimpiange di non aver mai potuto saldare i debiti, motivo per cui era emigrato in Argentina.

Domenico Pittarini muore il 28 novembre 1901 a El Trebol, regione dell’Azul, in Argentina. 

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