domenica, Maggio 5

Perché la corsa alla colonizzazione dello spazio non è un’idea folle

Non c’è romanzo o film di fantascienza nei quali la razza umana non ha colonizzato o esplorato altri mondi, alla ricerca di nuove specie aliene o per impiantarvi delle colonie, una nuova casa, oltre la Terra, il nostro pianeta d’origine. Nella realtà l’unico corpo celeste che abbiamo direttamente visitato è stato il nostro satellite, la Luna nel 1969 e dal 1972, nessun essere umano ci ha mai fatto ritorno.

Una parte dell’opinione pubblica trova che i soldi spesi nell’esplorazione dello spazio, alla ricerca di tracce di vita e di pianeti, potenzialmente abitabili, siano uno spreco e che queste risorse potrebbero essere meglio utilizzate per cercare di “risanare” il nostro pianeta o ridurre le gravi diseguaglianza sociali che affliggono ancora miliardi di persone. Si tratta di osservazioni comprensibili, ma fatte con una prospettiva rivolta ad un futuro tutto sommato ravvicinato, per il quale forse sarebbe più opportuno reperire i fondi necessari per questi sacrosanti interventi attraverso una più equa ridistribuzione della ricchezza e una riduzione degli armamenti.

Ma lasciando da parte considerazioni di ordine politico, se invece riflettiamo sulla necessità di continuare, anzi di accelerare l’esplorazione spaziale con gli “occhiali” di chi guarda ad un futuro più lontano, questi sono soldi spesi bene, sia per le ricadute tecnologiche nella vita quotidiana sia per la sopravvivenza stessa della specie umana. Si, perché come tutto quello che popola l’universo ha un inizio e una fine, anche nella più ottimistica delle previsioni, la nostra sorte è segnata.

La fine della Terra

La vita del nostro pianeta è strettamente collegata alla vita della nostra stella, nel bene e nel male. Il Sole ha un’età di circa 5 miliardi di anni e dovrebbe continuare a brillare, almeno per altri 5 o 6 miliardi di anni. Detta così preoccuparsi dell’estinzione della vita sulla Terra sembra un’idiozia. In realtà i “guai” per il nostro pianeta arriveranno molto prima, entro un miliardo di anni. La luminosità del Sole infatti con il passare del tempo cresce in correlazione con il consumo di idrogeno che avviene nella fusione nucleare, mano a mano che le scorte di idrogeno tendono a diminuire, la luminosità del nostro astro cresce. Tra un miliardo di anni l’energia che il nostro pianeta riceve dal Sole ogni istante registrerà un aumento del 10% e le temperature medie sulla superficie terrestre raggiungeranno il valore critico di circa 50°C, innescando un processo dalle conseguenze catastrofiche.

Tutta l’acqua presente sulla Terra evaporerà e si disperderà nello spazio e il pianeta diverrà un enorme zona desertica e sterile con le ovvie conseguenze sulla possibile sopravvivenza della vita, ad iniziare dalle forme più complesse, uomo in testa. Si obietterà che stiamo comunque parlando di un miliardo di anni, un tempo quasi inconcepibile per noi.

Non di solo Sole muore la vita

In realtà molti altri fattori possono innescare crisi gravissime in grado di minare la civiltà umana fino a portarla sull’orlo e oltre l’estinzione. Un cambiamento sensibile dell’orbita terrestre o dell’inclinazione del suo asse di rotazione porterebbe a sconquassi climatici di natura apocalittica, a prescindere dall’età del Sole. Le minacce però possono arrivare anche dallo spazio e in tempi notevolmente più ravvicinati del miliardo di anni che segna la fine certa della vita sulla terra.

Collisioni con comete o asteroidi di medie o grandi dimensioni potrebbero infatti innescare una catastrofe globale in grado di spazzare via la nostra civiltà. Nel 1908, per esempio, una gigantesca esplosione nella regione del fiume Tunguska, in Siberia, rase al suolo oltre 2000 chilometri quadrati di foresta. La spiegazione più accreditata di quell’evento è che sia stato prodotto dall’impatto con l’atmosfera di un oggetto roccioso di appena una cinquantina di metri di diametro. Se questo oggetto fosse caduto su una città avrebbe provocato una strage, ma viste le dimensioni si sarebbe trattato di una crisi locale e ben circoscritta.

Le cose sarebbero state del tutto diverse se le dimensioni dell’oggetto cosmico impattante fossero come quelle del meteorite metallico che nel deserto dell’Arizona ha provocato un bacino profondo circa 170 metri e con un diametro di 1200 chilometri. Si chiama non a caso Meteor Crater ed è il risultato di una collisione avvenuta cinquantamila anni fa. Ancora peggiore è stata la collisione di un asteroide di almeno 10 km di diametro che avrebbe colpito la Terra a 30 km/al secondo, 66 milioni di anni fa, liberando un’energia pari a 10.000 volte quella generabile da tutto l’arsenale nucleare ai tempi della guerra fredda. L’impatto creò un enorme cratere circolare,  il cratere di Chicxulub, situato nella penisola dello Yucatán, in Messico e provocò con i suoi drammatici effetti l’estinzione di tre quarti delle specie viventi, tra cui i dinosauri.

Le conseguenze catastrofiche di queste collisioni non dipendono soltanto dalle dimensioni degli oggetti celesti, ma dalla loro composizione, dalla velocità e dall’angolo di impatto. In altre parole un oggetto anche molto più piccolo di quello che ha colpito la Terra 66 milioni di anni fa, se metallico, particolarmente veloce e che piomba in verticale sul nostro pianeta può determinare conseguenze catastrofiche. Ma con quale frequenza la Terra viene colpita da corpi celesti di notevoli dimensioni. L’attività geologica e l’erosione atmosferica non consentono una ricostruzione attendibile del lontano passato e per avere un’idea della frequenza di queste collisioni abbiamo studiato la Luna, che non ha atmosfera e attività geologica.

Le probabilità di impatti catastrofici

Per eventi come quello accaduto nel 2013 a Čeljabinsk sempre in Siberia, dobbiamo aspettarci un paio di eventi al secolo, per quelli come Tunguska circa uno seicento anni. Gli impatti con oggetti dal diametro attorno al chilometro avvengono in media una volta ogni milione di anni; quelli tipo Chicxulub, che hanno portato all’estinzione dei dinosauri, uno ogni cento milioni di anni o più. Si tratta, è bene precisarlo, di stime probabilistiche e quindi non di certezze assolute. Oggi esistono centri che si occupano di monitorare asteroidi e comete potenzialmente pericolosi, nella speranza di riuscire ad individuarli con sufficiente anticipo, in modo da consentirci di evitare la collisione o nel caso peggiore di prepararci per quanto possibile all’impatto.

A differenza degli asteroidi, le comete di lungo periodo hanno orbite molto eccentriche, e in genere vengono scoperte solo quando sono già piuttosto vicine alla Terra. Un esempio di questo tipo è Neowise, una cometa di circa 5 chilometri di diametro scoperta nel marzo del 2020, appena quattro mesi prima che raggiungesse il punto di massimo avvicinamento al nostro pianeta (circa 100 milioni di chilometri).

Altri pericoli

Ma la nostro civiltà e la nostra stessa esistenza su questa piccola palla rocciosa non è minacciata soltanto da collisioni con corpi celesti. Eruzioni vulcaniche come quelle dei vulcani Tambora e Krakatoa, rispettivamente nel 1815 e nel 1883, causarono un abbassamento delle temperature globali di quasi un grado Celsius, che durò per diversi mesi e provocò carestie e disagi in tutto il mondo (il 1816 fu ribattezzato «l’anno senza estate»). Niente a che vedere come la devastante eruzione del vulcano indonesiano Toba avvenuta tra 75.000 e 70.000 anni fa. Si tratta probabilmente della più spaventosa eruzione degli ultimi 25 milioni di anni. Alcuni studiosi sostengono che questa immane calamità naturale avrebbe portato la razza umana sull’orlo dell’estinzione.

Lo studio della frequenza delle eruzioni passate suggerisce che super-eruzioni di questa entità avvengano all’incirca ogni cinquantamila anni. Contro un evento del genere non ci sono contromisure sostanziali se non quelle, di ridurre ove possibile una parte degli effetti. Dallo spazio provengono ulteriori rischi come le esplosioni di supernovae, che avvengono nella fase finale della vita di una stella. Per essere pericolose per la vita biologica terrestre questi fenomeni devono avvenire a distanze relativamente ravvicinate.

Il fattore umano

Se però dovessimo indicare il pericolo che minaccia la sopravvivenza della specie umana in termini temporali molto più ravvicinati di quelli indicati dai fenomeni naturali sommariamente descritti dobbiamo tristemente ammettere che si tratta di homo sapiens e delle sue attività.

Le probabilità che l’uomo annienti la civiltà creata in meno di quindicimila anni crescono esponenzialmente di anno in anno. La Terra non è più governata soltanto dai processi naturali ma è plasmata e modificata in modo pesante dalle attività umane. La crescita economica, sociale e tecnologica è diventata impetuosa a partire dal XVIII secolo, per subire un’altra forte accelerazione nel corso del secolo scorso.

Questa grande accelerazione ha avuto un impatto sulla Terra tutt’altro che benefico. Estinzione di migliaia di specie animali e vegetali, deforestazione selvaggia, immissione incontrollata di gas serra nell’atmosfera (a partire dall’anidride carbonica), cambiamenti climatici, acidificazione degli oceani. A questo elenco va aggiunto il costo sociale prodotto dallo sfruttamento selvaggio del nostro pianeta: migrazioni, competizioni anche cruente per le fonti di energia, pandemie, aumento delle diseguaglianze ed altro ancora. Probabilmente “l’azione nociva” dell’uomo non è in grado di annientare l’intero sistema biologico della Terra (a meno di un apocalittica guerra nucleare), ma può certamente picconare in modo irreversibile la civiltà umana e portare homo sapiens sull’orlo dell’estinzione. In altre parole siamo troppi e troppo infestanti per questo pianeta e la voracità senza limite dell’essere umano potrebbe tradursi in un boomerang letale entro un secolo o due al massimo.

Conclusioni

Se le cose stanno così, l’esplorazione spaziale, la ricerca di mondi abitabili e di tracce di vita non appaiono soltanto un riflesso dell’insaziabile curiosità che è un tratto distintivo della nostra razza, ma anche la possibilità in un futuro, non certamente prossimo, di trovare una nuova “casa”. L’umanità interplanetaria può costituire l’unica valida risposta ad un concreto pericolo di estinzione, sia esso prodotto da cause naturali che dai nostri stessi comportamenti.

Il compianto astrofisico britannico  Stephen Hawking ha previsto che la razza umana si estinguerà entro mille anni se entro duecento anni non inizierà la colonizzazione spaziale. Mille anni sono molto meno di un miliardo di anni, può sembrare paradossale se paragoniamo ciò alla vita media di un essere umano, ma si può affermare che il tempo stringe.

Fonti:

alcune voci di Wikipedia

Su un altro pianeta di A. Balbi

 
 

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