domenica, Maggio 19

Quanto sono reali le foto astronomiche?

Quando osserviamo le foto spettacolari catturate dal vecchio Hubble oppure dal nuovo e più potente James Webb Space Telescope può sorgere spontanea la domanda se quello che vediamo in quelle meravigliose immagini è reale, ovvero se è ciò che potremmo vedere se avessimo una vista super potente o più semplicemente fossimo maggiormente vicini all’oggetto fotografato. Insomma sono immagini reali oppure delle rappresentazioni digitali “artistiche”?

Una rappresentazione della realtà

In premessa dobbiamo chiarire che qualunque foto che scattiamo è una rappresentazione della realtà frutto di un processo elaborativo che dipende da molteplici fattori: le lenti che usiamo, il tempo di esposizione, il tipo di sensore della fotocamera e gli algoritmi che sovrintendono l’intero processo di acquisizione dell’immagine. Naturalmente lo scopo di qualunque fotografo è quello di catturare un’immagine che sia la più vicina possibile a quella reale, quella per intenderci che vediamo con i nostri occhi.

Le foto astronomiche presentano però particolari difficoltà, ad iniziare dal fatto che cerchiamo di fotografare oggetti dalla luce molto debole o troppo distanti dal nostro punto di osservazione. Inoltre non dobbiamo dimenticare che le foto astronomiche, almeno quelle scattate da ricercatori professionisti, non sono scattate per avere delle immagine esteticamente spettacolari ma per acquisire dati scientifici.

In altre parole le immagini astronomiche sono un modo per visualizzare dei dati. Ciò detto possiamo dire con certezza che si tratta comunque di vere foto, intendendo con questa affermazione che si tratta di una modalità che ci permette di acquisire informazioni reali e concrete su oggetti ed eventi, che altrimenti non saremmo stati in grado di vedere.

Giove

Come fanno i nostri occhi a percepire i colori

Non dobbiamo infatti dimenticare che la nostra vista è sensibile soltanto ad una porzione ristretta dello spettro elettromagnetico, quella che viene chiamata “luce visibile”. All’interno di questo intervallo ci sono tutti i colori che l’occhio umano può effettivamente vedere, per intenderci i colori che formano un’arcobaleno. Ognuno di questi colori corrisponde ad un determinato intervallo di lunghezze d’onda della radiazione elettromagnetica.

Come fanno i nostri occhi a vedere la luce visibile? La percezione del colore comincia dalle cellule specializzate presenti nella retina contenenti pigmenti con diverse sensibilità spettrali, conosciute come coni. Negli esseri umani, ci sono tre tipi di coni sensibili rispettivamente a tre diversi spettri di onde elettromagnetiche, e ciò dà come risultato una visione del colore tricromatica. Questi recettori sono sensibili ai colori rosso, giallo e blu.

I coni sono convenzionalmente etichettati secondo l’ordine dei picchi delle lunghezze d’onda delle loro sensibilità spettrali: cono tipo corto (S), medio (M), e lungo (L). Il modello RGB (ovvero quello basato sui tre colori giallo, rosso e blu) in realtà è ancora più complesso. Per esempio, mentre i coni L vengono riferiti semplicemente come ricettori del rosso, tecniche di microspettrofotometria hanno mostrato che la loro sensibilità di picco è nella regione giallo-verde dello spettro. Allo stesso modo, i coni S e M non corrispondono esattamente al blu e al verde, malgrado siano spesso descritti in questo modo. Il modello di colore RGB, perciò, è un modo conveniente per rappresentare i colori, ma non è direttamente basato sui tipi di coni presenti nell’occhio umano.

Combinando le diverse intensità di questi tre colori, il cervello ci restituisce l’immagine cromatica fedele alla realtà osservata. Questa tecnica è usata normalmente nei televisori, negli smartphone e in tutti gli altri device che elaborano immagini per il nostro consumo. Anche per i nostri telescopi si utilizza questo tipo di tecnologia, si combinano tre immagini monocromatiche che però contengono una l’informazione del colore rosso e le altre due, quelle del giallo e del blu e al termine del processo elaborativo si ottiene un’immagine molto vicina a quella reale.

Le foto astronomiche

Questo però non accade molto spesso in astronomia, nella maggior parte delle volte le immagini catturate sono piuttosto diverse dai colori reali, perché come abbiamo già accennato, gli astronomi non sono interessati a scattare immagini estetiche ma vogliono foto che forniscano preziose informazioni e dati scientifici sull’oggetto che stanno osservando.

Pertanto spesso filtrano la luce a lunghezze d’onda molto specifiche in grado di mostrare quei dati utili alle loro ricerche. Queste lunghezze d’onda specifiche non corrispondono necessariamente a quelle dei tre colori giallo, rosso e blu che opportunamente combinati ci ritornano tutti i colori dell’arcobaleno, possiamo però assegnare dei colori un po’ arbitrari in modo da ottenere un’immagine cromaticamente completa. In molte foto scattate da Hubble ad alcune nebulose, ad esempio, all’ossigeno viene assegnato il blu, all’idrogeno il verde e il rosso all’azoto.

Nella realtà se potessimo davvero osservare quelle nebulose l’ossigeno apparirebbe verdastro, ma sia l’azoto che l’idrogeno apparirebbero rossicci. L’immagine combinata è quindi il prodotto di una “tavolozza” speciale usata da Hubble e le foto che ne risultano sono immagini a falsi colori che però forniscono moltissimi dati scientifici sulla composizione chimica di quelle nebulose. Peraltro è possibile scattare foto con colori reali di queste nebulose ma esse sarebbero prive di quelle informazioni indispensabili alla ricerca astronomica.

nebulosa con colori arbitrari

Le altre lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico

I telescopi terrestri e spaziali, inoltre, non osservano soltanto lo spettro elettromagnetico della luce visibile che ne occupa la sezione centrale e costituisce la luce, ma anche quelle a frequenza minore e maggiore (rispettivamente a lunghezza d’onda maggiore e minore) dello spettro visibile. Le onde di lunghezza maggiore, dall’infrarosso alle onde radio, hanno bassa intensità e minore energia risultando scarsamente dannose per gli organismi viventi, mentre le radiazioni a lunghezza d’onda inferiore, dall’ultravioletto ai raggi gamma, hanno elevata energia ed effetto ionizzante, e possono produrre danni biologici.

Le immagini catturate con lunghezze d’onda diverse da quelle della luce visibile non possono avere corrispondenza con la realtà semplicemente perché i nostri occhi non sono in grado di percepire queste radiazioni elettromagnetiche. In questi casi l’astronomo assegna dei colori del tutto arbitrari che esaltano le informazioni contenute in queste immagini.

La ricerca astronomica è orientata all’osservazione di oggetti attraverso l’utilizzo di tutto lo spettro elettromagnetico perché in questo modo ottiene informazioni supplementari e aggira alcuni ostacoli della stessa osservazione astronomica. Ad esempio la polvere di una nebulosa assorbe la luce visibile e quindi non potremmo osservare quello che c’è al di la, ma utilizzando la radiazione infrarossa possiamo superare questa “barriera”.

Il telescopio spaziale Webb utilizza prevalentemente l’infrarosso per scandagliare le profondità dell’universo. Questo significa che quando osserviamo una foto scattata da Webb non stiamo osservando quello che potrebbero vedere i nostri occhi ma un’elaborazione cromatica arbitraria che non inficia assolutamente il valore scientifico di quelle immagini.

Anche la famosa prima fotografia del buco nero al centro della nostra galassia, ottenuta con le onde radio, non è cromaticamente realista anche perché, è bene ribadirlo un’ultima volta, i nostri occhi non sono in grado di percepire quel tipo di radiazione elettromagnetica. Questo però non deve fuorviarci queste foto sono rappresentazioni accurate delle realtà cosmica, adattate ai limiti fisici del nostro apparato visivo.

Fonti:

alcune voci di Wikipedia

Amedeo Balbi

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