mercoledì, Maggio 8

Alla scoperta del corpo umano: la testa

La testa è la parte più importante del corpo umano, oltre a custodire il cervello organo fondamentale per quasi tutte le funzioni vitali e sede della coscienza e dell’intelligenza umana, è anche la parte anatomica che ospita i recettori di quasi tutti i sensi che ci fanno percepire il mondo in cui viviamo.

Si può vivere senza un braccio o una gamba, perfino senza tutti e quattro gli arti ma non possiamo sopravvivere senza la testa.

Un macabro quesito

Ed a proposito di questa spaventosa eventualità c’è stato un periodo storico in cui molti scienziati o studiosi si chiedevano quanto ci impiega effettivamente a morire una persona decapitata. Ci riferiamo al cosiddetto Regime del Terrore della Rivoluzione francese che va dal 2 giugno 1793 fino al 27 luglio 1794 con la caduta e la condanna a morte di Robespierre, il leader giacobino.

Questo periodo fu contrassegnato da un numero enorme di condanne a morte, circa 17.000 eseguite per decapitazione usando la ghigliottina, strumento che prese il nome non dal suo inventore ma dal medico e politico rivoluzionario francese Joseph-Ignace Guillotin, che fu il capofila dei deputati che propugnavano all’Assemblea nazionale l’adozione di uno strumento di esecuzione che fosse uniforme per tutti i condannati e garantisse una morte immediata e senza sofferenze.

Le cronache di quel periodo (ma anche di epoche precedenti quando si decapitavano i condannati con asce o spade) raccontano di espressioni, movimenti oculari che persistevano dopo che la testa era stata mozzata. Cercare di capire quanto durasse ancora l’ultimo soffio di vita divenne pertanto quasi un ossessione, tanto che nel 1803, decisi a conferire un qualche rigore scientifico al tema, due ricercatori tedeschi afferrarono le teste appena recise e le esaminarono in cerca di segni d’attenzione, gridando: «Mi senti?».

Va da se che nessuna testa rispose anche soltanto con un minimo cenno alla domanda dei due ricercatori. Una testa decapitata di netto (cosa meno facile di quanto si possa supporre) contiene ancora sangue ossigenato, per cui si può supporre che la perdita di coscienza non sia istantanea, ma secondo alcune stime il cervello potrebbe ancora funzionare per un periodo oscillante tra i 2 e i 7 secondi.

Le stravaganti discipline scientifiche sullo studio della testa

Gli “studi” sulla durata della coscienza in seguito ad una decapitazione non sono stati casi isolati nella comprensione dei segreti anatomici e funzionali del cranio umano. Nel XIX secolo nacquero ben due pseudo discipline scientifiche, spesso confuse tra loro ed entrambe discutibili, sullo studio della testa, la frenologia e la craniometria.

La frenologia, ideata e promossa dal medico tedesco Franz Joseph Gall (1758-1828), asseriva che esaminando alcune particolarità morfologiche del cranio di una persona, come linee, depressioni e bozze, si poteva giungere alla determinazione delle qualità psichiche dell’individuo e della sua personalità.

I seguaci della craniometria consideravano i frenologi quasi alla stregua dei ciarlatani, poiché la loro disciplina si basava su misurazioni accurate del volume, della forma e della struttura di testa e cervello giungendo, va detto, a conclusioni altrettanto assurde della disciplina “concorrente”.

Il collezionista di crani

Oggi è praticamente dimenticato ma nell’Ottocento, Barnard Davis, un medico inglese, divenne un’autorità in materia di crani umani, assumendo una fama internazionale. Seguace della craniometria, tanto da diventarne la massima autorità mondiale, tra il 1840 e il 1880 scrisse un cospicuo numero di saggi sull’argomento. Gran parte dei quali riscossero un successo di vendite impensabile, il suo Crania britannica, in due volume, raggiunse le trentuno edizioni!

Era talmente famoso Davis che persone di ogni ceto sociale facevano a gare a donargli il proprio cranio post mortem. La sua collezione privata arrivò a contenere 1540 teschi umani, più di tutti quelli degli istituti medici e scientifici dell’epoca messi insieme.

La sua ambizione scientifica principale era quella di dimostrare che chi aveva la pelle scura era stato creato in modo diverso da chi aveva la pelle chiara. Razzismo e xenofobia d’altra parte si respiravano a pieni polmoni e anche la scienza e le pseudoscienze non ne erano esenti.

Testa e razzismo

Nel 1866 l’eminente dottore inglese John Langdon Haydon Down descrisse per la prima volta il disturbo oggi conosciuto come sindrome di Down in un articolo intitolato “Observations on an Ethnic Classification of Idiots”.

Già il titolo era tutto un programma, definì questo disturbo come «mongolismo» e quelli che ne erano affetti «idioti mongoloidi», convinto com’era che soffrissero di un’innata regressione a un carattere inferiore di tipo asiatico. Down credeva, e nessuno mise mai in dubbio la sua teoria, che idiozia ed etnia fossero tratti congiunti.

A fare “buona compagnia” a Down, c’è il nostro Cesare Lombroso, considerato uno dei padri della moderna criminologia. Secondo la sua “antropologia criminale“, Lombroso sosteneva che alcuni individui che presentavano una regressione evolutiva e tradivano istinti criminali, potevano essere individuati da una serie di tratti somatici: inclinazione della fronte, lobi arrotondati, orecchie ad ansa, persino distanza fra le dita dei piedi.

L’autorevolezza del fisiologo italiano era tale che un così clamoroso cumulo di sciocchezze, fu accettato per lungo tempo. Ma Lombroso non era l’unico vero scienziato a prendere lucciole per lanterne a causa di una presunta superiorità della razza bianca sulle altre.

Paul Broca, stimato antropologo, chirurgo e medico francese era anch’egli un seguace della craniometria. Nel 1861 Broca durante l’autopsia di un uomo che per 18 anni non aveva fatto che ripetere esclusivamente la sillaba “tan” scoprì che il centro del linguaggio umano si trovava nel lobo frontale. Da allora quest’area, la prima scoperta di una zona del cervello specializzata, si chiama area di Broca.

Anche lui però era convinto che donne, delinquenti e stranieri dalla pelle scura avessero un cervello più piccolo e meno agile di quello dei maschi bianchi, e liquidò le prove contrarie a questa teoria balzana come errate o mal condotte.

Il volto umano

Il volto umano è estremamente espressivo, le stime su quante espressioni sia in grado di produrre non sono univoche e oscillano tra le 4.000 e le 10.000, in entrambi i casi si tratta di numeri considerevoli. Nelle espressioni facciali sono coinvolti oltre quaranta muscoli. Intere regioni del cervello sono dedicate al riconoscimento facciale ed è comprovato che i neonati preferiscono le facce a qualsiasi altra forma o parte del corpo umano.

Non solo i neonati sono sensibili alle facce e al mutare delle espressioni ma anche e soprattutto gli adulti sono influenzati, a volte inconsapevolmente, da particolari espressivi a volte minimali. In un esperimento ad alcuni volontari uomini sono state mostrate due foto di donne identiche tranne che per le pupille, appena ingrandite in una foto. Sebbene il cambiamento fosse veramente minimo, quasi da non essere percepibile, i volontari hanno immancabilmente trovato più attraenti le donne con le pupille più grandi, pur non sapendo spiegare il perché.

Nel 1972 Paul Ekman (classe 1934) condusse una ricerca rivoluzionaria. Seguendo una tribù isolata dal mondo in Papua Nuov Guinea scoprì alcune espressioni facciali innate e universali:

  • Rabbia
  • Disgusto
  • Tristezza
  • Gioia
  • Paura
  • Sorpresa

Ekman ampliò la sua lista di emozioni base nel 1992 aggiungendo altre 11 espressioni facciali base e valide per ogni essere umano a prescindere da etnia, censo e grado di istruzione.

Una faccia singolare

Rispetto ai primati, l’ordine dei mammiferi placentati a cui apparteniamo, la nostra testa è piuttosto singolare, faccia piatta, fronte alta e naso sporgente. Queste caratteristiche dipendono dal cervello piuttosto grande, dalla postura eretta e da alimentazione e stile di vita.

Ci sono non pochi aspetti delle nostre facce che ancora non comprendiamo per niente o su cui avanziamo soltanto delle ragionevoli supposizioni. Le sopracciglia ad esempio. Homo Sapiens ha rinunciato alle sporgenti arcate sopracciliari dei precedenti ominidi a favore delle sopracciglia. Ma a cosa servono queste sottili e mobili strisce di peli?

Secondo una teoria difendono gli occhi da un’eccessiva sudorazione ma sono anche una “fonte espressiva” estremamente importante. Anche sulle ciglia non si sa moltissimo, quello che è acclarato è che dirottano il flusso dell’aria intorno all’occhio, impedendo a bruscolini di polvere e particolato di colpire i nostri occhi.

Naso e mento

Il naso degli esseri umani è ancora più singolare. In genere i mammiferi hanno il muso e non un naso arrotondato e sporgente come il nostro. Secondo alcune teorie il naso umano si sarebbe evoluto in questo modo per migliorare la capacità respiratoria e impedire il surriscaldamento durante corse prolungate.

L’aspetto più misterioso della nostra faccia è però il mento. Lo hanno solo gli umani e non si sa perché. Siccome non sembra apportare alcun vantaggio strutturale alla testa, alcuni sostengono che si tratti di un elemento di richiamo.

La testa, il nostro hub per capire il mondo

Al di là di ogni altra considerazione la testa umana e il suo “contenuto” costituisce la nostra porta di accesso al mondo che ci circonda. Oltre a vista, udito e olfatto ospita un numero impressionante di altri “sensi” da quello dell’equilibrio, a quello dell’accelerazione e della decelerazione, dalla capacità di sapere dove ci troviamo nello spazio (noto come propriocezione), a quella del passare del tempo, fino ad arrivare al senso dell’appetito. In tutto (e in base a come li si conta) ne abbiamo almeno trentatré, che ci informano in “presa diretta” su dove siamo e come stiamo.

Foto di lbeechphotography da Pixabay

Foto di Engin Akyurt da Pixabay

Fonti:

Alcune voci di Wikipedia

Bryson, Bill. Breve storia del corpo umano

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