venerdì, Maggio 17

Il dilemma dell’unicità dell’universo

Quando parliamo di universo, in realtà più correttamente ci riferiamo all’universo osservabile, ovvero quella  regione di spazio racchiusa da una sfera centrata su un osservatore, sfera che contiene tutto ciò che egli può osservare. Generalmente si intende la porzione di universo indagabile dall’uomo, quindi la sfera centrata sulla Terra, ma ogni posizione nello spazio possiede il suo universo osservabile.

Uno dei limiti della nostra conoscenza cosmologica è che ogni universo osservabile è unico. Da Galileo in poi la scienza è andata alla ricerca di leggi di natura immutabili e universali. Per distinguere una legge fondamentale della natura universale ed immutabile occorre distinguere tra le cose che accadono accidentalmente ed i fenomeni che si ripetono regolarmente all’interno di una situazione controllata.

Possiamo evincere gli assunti principali di queste leggi della fisica fondamentali non soltanto attraverso le sperimentazioni empiriche ma come accade in astrofisica, osservando in natura casi dello stesso fenomeno. Un esempio tipico è quello del moto dei pianeti. Ovviamente non possiamo riprodurre in laboratorio questo fenomeno ma il fatto che la Terra orbiti intorno al Sole è una conseguenza delle proprietà geometriche dello spaziotempo intorno alla nostra stella.

La stessa “legge” della fisica è applicabile però ad un’infinità di traiettorie diverse. Ogni sistema planetario è unico ed è il prodotto di condizioni accidentali impossibili da riprodurre ma, tutti i sistemi planetari sono simili in quante alle regole generali che li governano. Lo stesso vale per galassie, nebulose e altri sotto insiemi dell’universo.

Lo stesso però non si può dire per l’universo intero. Non solo non possiamo creare un universo in laboratorio, ma non possiamo neanche osservare diversi esempi di universo. Quello che possiamo fare è postulare che le leggi fisiche fondamentali valgano per l’intero universo, qualunque punto dello spaziotempo si consideri.

La posizione da cui osserviamo l’universo è unica e non possiamo cambiarla, anche se abbiamo informazioni sufficienti per ritenere che essa non abbia niente di particolarmente insolito rispetto a tutte le altre. Questo non significa che il nostro punto di osservazione, la Terra, non abbia qualcosa di speciale rispetto alla totalità dei mondi per adesso conosciuti, basta limitarci al fatto che il nostro pianeta ha peculiari condizioni fisiche che hanno permesso lo sviluppo di una forma di vita senziente evoluta.

Secondo il modello cosmologico adottato l’universo su grande scala deve essere omogeneo (appaia lo stesso in ogni posizione) e isotropo (appaia lo stesso in ogni direzione). Si tratta di un assunto teorico credibile ma non certo in modo assoluto in quanto non possiamo cambiare punto di osservazione per verificarlo in modo incontrovertibile. In base alle osservazioni effettuate l’universo sembra possedere le stesse proprietà su grande scala da qualunque parte poniamo lo sguardo.

L’isotropia per esempio è in ottimo accordo con le osservazioni della radiazione cosmica di fondo. Per quanto riguarda l’omogeneità dell’universo però dovremmo avere la conferma della sua isotropia da qualunque punto di osservazione. E questo non possiamo farlo.

Ci aggrappiamo quindi alla convinzione che la nostro posizione nello spazio non sia diversa da qualunque altra posizione. E’ una deduzione molto credibile ma in via teorica niente impedirebbe di vivere vicino al centro di un vuoto circondato da una distribuzione approssimativamente sferica di materia: l’universo ci apparirebbe isotropo, ma non sarebbe anche omogeneo.

Al di la delle difficoltà di poter essere sicuri al 100% di queste qualità dell’universo, il vero problema è che non sappiamo davvero perché l’universo dovrebbe essere omogeneo e isotropo. La teoria della relatività generale funzionerebbe anche senza che l’universo possedesse queste caratteristiche. Non potendo estendere lo sguardo oltre l’orizzonte dell’universo visibile ci è preclusa ogni parola definitiva. Parliamo comunque di una porzione di spazio sterminata che secondo alcuni calcoli ammonterebbe a 93 miliardi anni luce, per un volume di spazio sferico pari a circa 5×1032 anni luce cubi; queste dimensioni potrebbero contenere circa 7×1022 stelle organizzate in circa 2×1012 galassie (duemila miliardi, secondo una stima effettuata nel 2016).

Il termine che i cosmologi utilizzano per definire questo limite invalicabile è “varianza cosmica” ovvero  l’incertezza statistica inerente alle osservazioni dell’universo a distanze estreme. Essa si basa sull’idea che è possibile osservare solo una parte dell’universo in un determinato istante, quindi è difficile fare rilevazioni statistiche cosmologiche sulla scala dell’intero universo, in quanto il numero di osservazioni può essere troppo piccolo.

Fonti:

alcune voci di Wikipedia

L’ultimo orizzonte, di A. Balbi

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