martedì, Aprile 30

Scandalo Armani: Il Lato Oscuro della Moda di Lusso

Una borsa in pelle firmata Giorgio Armani può sembrare un’icona di prestigio e stile italiano, ma dietro il luccichio delle passerelle e delle vetrine si cela una realtà meno glamour e più tenebrosa. Questo non è solo il racconto di una borsa di lusso, ma di un’intera industria che si muove tra i fili sottili del profitto e dell’etica.


Dove nasce una borsa Armani

Quando immaginiamo un accessorio Armani, probabilmente pensiamo a qualcosa di impeccabile, realizzato con cura artigianale e materiali pregiati. Tuttavia, l’inchiesta che ha scosso il panorama della moda rivela un aspetto oscuro: la produzione di queste borse avveniva in capannoni che funzionano come veri e propri dormitori per lavoratori sfruttati.

Questi lavoratori, spesso provenienti dalla Cina, si trovavano ad affrontare condizioni disumane, senza protezione sociale né diritti lavorativi: non erano sottoposti a visite mediche, vivevano in alloggi degradanti, operavano senza alcun dispositivo di sicurezza ed erano pagati soltanto 2-3 euro l’ora, molto al di sotto degli standard contrattuali.

Inoltre, è emerso un “registro in nero” che evidenzia come le ore lavorative effettive erano nettamente superiori a quelle dichiarate agli enti previdenziali/assistenziali, con turni che si protraevano fino a 14 ore al giorno, dalle 6:45 alle 21:00, incluso nei giorni festivi.

I mancati controlli dell’Azienda


Ma l’azienda Armani, sapeva effettivamente ciò che stava accadendo? A quanto pare sì, e infatti quando i carabinieri, sotto l’incarico dei PM Baima Bollone e Storari, si recarono all’opificio cinese “Wu Cai Ju” a Rozzano il 15 febbraio 2024, si trovarono di fronte a una sorpresa inaspettata: tra i presenti, c’era anche un dipendente della “Giorgio Armani Operations spa“, identificato come N. M.

Quest’ultimo affermò di essere un “ispettore controllo qualità del prodotto finito” per l’azienda, incaricato di verificare la resistenza dei collanti utilizzati nella produzione delle borse ai raggi solari. Aggiunse di aver visitato il laboratorio una volta al mese per sei mesi, esclusivamente per condurre controlli di qualità. Tuttavia, specificò di non essere coinvolto nelle verifiche sulla conformità tecnico-professionale dell’opificio cinese e di non essere al corrente se tali verifiche fossero state svolte da altri ispettori della sua società. Questa circostanza, secondo le valutazioni dei giudici, appare “alquanto sconcertante“, poiché la società non ha intrapreso alcuna indagine sull’utilizzo del laboratorio.


Le indagini coinvolgono delle aziende italiane (la Manifatture Lombarde srl con sede nel Milanese e la Minoronzoni srl di Bergamo), che subappaltavano a loro volta la produzione a delle fabbriche cinesi: così il Tribunale di Milano ha preso provvedimenti contro la Giorgio Armani Operations Spa, sottoponendola ad amministrazione giudiziaria per non aver esercitato adeguati controlli sulla catena di produzione, facilitando lo sfruttamento dei lavoratori.

Morire per una borsa


Questa misura è un tentativo di porre rimedio a una situazione eticamente inaccettabile; tuttavia, purtroppo, la vicenda Armani, rappresenta solo la punta di un iceberg ben più grande di ciò che sembra, poiché il problema dello sfruttamento dei lavoratori è largamente diffuso nel settore della moda e del lusso.

A gennaio di quest’anno era già esploso lo scandalo dell’Alviero Martini spa, anche questa un’azienda specializzata in borse e accessori, accusata di non essere stata in grado di prevenire e contrastare il fenomeno dello sfruttamento lavorativo nel proprio ciclo produttivo. Si sarebbero massimizzati i profitti attraverso l’uso di opifici cinesi e il ricorso a manodopera in nero e clandestina, anche in quel caso condizioni dei lavoratori pessime al punto che un operaio, di soli 25 anni, Abdul Ruman trovò la morte, rimanendo schiacciato sotto un pesante macchinario.

Non solo Armani

Solo qualche giorno fa un lavoratore cinese ha reso note le pratiche di sub-appalto relative alla produzione di cinture da parte della Minoronzoni srl; egli spiega: “Tutte le ditte cinesi, non devono figurare come aziende di produzione. Ricordo che dal 2003 al 2010 lavoravo come azienda ‘Confezioni Angela’ per la società chiamata Minoronzoni di Bergamo. È’ una società che ha attualmente la quasi totalità della gestione dei marchi di lusso per le cinture, le borse, le scarpe e portafogli. All’epoca la ‘Confezioni Angela’ dove lavoravo assemblava cinture dei noti marchi Zara, Diesel, Hugo Boss, Hugo Boss Orange, Trussardi, Versace, Emporio Armani, Alviero Martini, Tommy Hilfigher. Gucci, Gianfranco Ferre’, Dolce e Gabbana, Marlboro e Marlboro Classic, Replay, Levis e tanti altri che al momento mi sfuggono”.

Un approccio più etico alla moda per sconfiggere il nuovo schiavismo


Fino a che punto siamo disposti a chiudere un occhio di fronte allo sfruttamento dei lavoratori pur di soddisfare il nostro desiderio di moda e lusso? La responsabilità sociale delle aziende diventa quindi cruciale, così come la trasparenza lungo tutta la catena di produzione.


Ora, più che mai, è necessario interrogarsi sulle conseguenze delle nostre scelte di consumo e sostenere un approccio più etico e sostenibile alla moda. Solo così potremo aspirare a un settore che non solo ci fa sentire belli all’esterno, ma che rifletta anche i nostri valori più profondi, rendendoci orgogliosi di ciò che indossiamo con consapevolezza e integrità e che riflettano soprattutto valori etici e umani che rispettino e proteggano i diritti dei lavoratori.

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