sabato, Maggio 18

Dalla scoperta della penicillina ai superbatteri, il tramonto degli antibiotici

Quando nel 1884 Robert Kock asserì che il colera era causato da un bacillo, il mondo accademico e medico accolse questa scoperta con supponenza e irrisione. La possibilità che un microorganismo potesse causare malattie serie ad un essere complesso come l’uomo era infatti ritenuta quasi un’eresia.

Un suo stimato collega di Kock, Max von Pettenkofer per dimostrarne l’infondatezza di questa scoperta ingurgitò pubblicamente un’intera fiala di  Vibrio cholerae, il batterio responsabile della malattia. Incredibilmente von Pettenkofer non si ammalò e questo evento ritardò la cosiddetta “teoria dei germi” propugnata da Kock. Il rivale del microbiologo tedesco non rivelò al pubblico però che due suoi assistenti che avevano effettuato la stessa prova si erano ammalati gravemente.

La scoperta della penicillina

Sulla scoperta accidentale della penicillina da parte di Alexander Fleming (1881-1955) esistono diverse e discordanti versioni. Quella forse più accreditata risale al 1944, quindici anni dopo il 1929, anno nel quale, il medico e biologo inglese, la presentò al Medical Research Club, ottenendo una fredda accoglienza. Le cose andarono più o meno così, nel 1928 durante una pausa di lavoro di Fleming, che all’epoca era ricercatore presso il Saint Mary’s Hospital di Londra, alcune spore di muffa del genere Penicillium finirono su una piastra di Petri incustodita del suo laboratorio.

Grazie ad una serie di fortuite e fortunate circostanze (la piastra non era stata pulita, quell’estate era insolitamente fresca) la muffa proliferò ma al contempo Fleming notò come la coltura batterica della piastra fosse drasticamente diminuita.

Con l’avvento dei sulfamidici, la penicillina venne temporaneamente “messa da parte”: avrebbe avuto la sua rivalsa solo qualche anno più tardi, grazie agli studi di alcuni ricercatori di Oxford. I sulfamidici, chiamati così perché derivati dalla sulfamide, erano stati creati dalla Bayer, che comunicò i suoi risultati al mondo nel 1935. Si trattava di farmaci che funzionavano abbastanza bene, purché non fosse in atto un’alta concentrazione microbica che li rendeva, a quel punto, inefficaci.

La rivincita della penicillina

Per superare questo limite terapeutico, un team di biochimici di Oxford, coordinato dall’australiano Howard Florey, ripartì dalla scoperta di Fleming e scoprì come la penicillina era praticamente priva di effetti collaterali. Il problema era di natura produttiva, estrarre il farmaco dalla muffa costituiva un lavoro complesso e con poca “resa“. Si arriva quindi al 1941 quando finalmente Florey ha il quantitativo sufficiente per far partire la sperimentazione su un essere umano.

Il caso di Albert Alexander

È una mattina di febbraio quando il poliziotto inglese Albert Alexander, impegnato a tagliare delle rose nel suo giardino, si punse con una spina. In pochi giorni, la ferita si infettò provocandogli così tanti ascessi sul corpo, da costringerlo al ricovero presso l’ospedale Radcliffe di Oxford. Nonostante la somministrazione di sulfamidici, le condizioni del poliziotto non miglioravanopertanto si decise di provare con la penicillina. Per la prima volta un antibiotico veniva iniettato su un paziente che, in meno di 24 ore, andò incontro a un netto miglioramento.

Purtroppo per Alexander la dose che gli veniva iniettata era di appena 160 mg, ottenuta anche dalla filtrazione delle urine dello stesso poliziotto dopo ogni iniezione, un dosaggio che non fu sufficiente a salvargli la vita. La validità del farmaco era però stata dimostrata inequivocabilmente, tanto che Florey insieme al suo collaboratore Norman Hartley partirono per gli Stati Uniti, l’unico paese al mondo che poteva risolvere il problema di produzione della penicillina. Così, un farmaco scoperto in Gran Bretagna sarà imposto a livello mondiale dagli Stati Uniti.

Il melone salvavita

Probabilmente non tutti sanno che il rebus della produzione sufficiente di penicillina va ascritto ad un unico melone giallo che fu recapitato nel laboratorio di ricerca di Peoria, Illinois, Stati Uniti dove si effettuava la ricerca per una produzione massiva del farmaco.

Mary Hunt, una degli assistenti di ricerca ricordò in seguito che il melone giallo era ricoperto da una “bella muffa dorata” che si rivelò 200 volte più potente di qualunque altra muffa testata fino ad allora. La muffa fu asportata e sopravvisse, mentre il resto del melone fu mangiato dai ricercatori.

Ebbene ogni grammo di penicillina prodotto da allora fino ad oggi deriva da quell’unico melone giallo. Ci vorrà meno di un anno prima che le case farmaceutiche iniziassero a produrre 100 miliardi di unità al mese di penicillina.

Il rovescio della medaglia

La capacità migliore della penicillina era quella di poter contrastare quasi ogni tipo di batterio. Allo stesso tempo questa sua caratteristica costituiva anche il suo tallone d’Achille. Più i microbi venivano esposti a questo antibiotico, più ne aumentava la propria resistenza. Inoltre gli antibiotici sono tutt’altro che “bombe intelligenti“, insieme ai batteri patogeni colpiscono anche batteri buoni ed utili.

Lo stesso Fleming, già nel 1945 mise in guardia dal pericolo che un uso indiscriminato di antibiotici avrebbe potuto portare alla creazione di batteri super resistenti. Il suo avvertimento però è rimasto inascoltato e soprattutto in Occidente nel corso degli ultimi cinquanta anni si è abusato della terapia antibiotica.

Oggi ci troviamo di fronte ad una vera emergenza per l’insorgenza di una categoria sempre più numerosa di batteri super resistenti. Allo stesso tempo le case farmaceutiche non investono quasi più nella scoperta di nuove classi di antibiotici in grado di colpire anche i super batteri. Fino agli anni Novanta le case farmaceutiche immettevano nel mercato circa tre nuovi antibiotici l’anno. Adesso ne esce uno nuovo, un anno si e uno no.

I medici vanno in battaglia contro vecchie e nuove infezioni con un arsenale farmaceutico sempre più ridotto. Insomma è come se un esercito in guerra si trovasse di fronte al nemico con pochissime munizioni. Questa pericolosa situazione è la conseguenza di un uso dissennato degli antibiotici. Per capire la gravita del fenomeno basta osservare che quasi tre quarti dei quaranta milioni di antibiotici prescritti ogni anno negli Stati Uniti sono utilizzati contro malattie che non sono sensibili agli antibiotici stessi.

Gli effetti del cattivo uso degli antibiotici

Un semplice esempio facilita la comprensione del fenomeno. Nel 1945 per curare una polmonite pneumococcica erano sufficienti 40.000 unità di penicillina, oggi ne servono almeno 20 milioni di unità per diversi giorni. E su numerosi batteri la penicillina non ha più alcun effetto, tanto che il tasso di mortalità per malattie infettive è in aumento ed è tornato ai livelli di circa quarant’anni fa.

I superbatteri

I batteri non sono diventati soltanto più resistenti all’uso degli antibiotici ma alcuni di essi si sono evoluti in una nuova classe estremamente temibile, assumendo il nome inquietante di superbatteri. Questi superbatteri, ogni anno uccidono almeno 700.000 persone in tutto il mondo. Nonostante l’aggravarsi di questa situazione le case farmaceutiche hanno smesso di creare nuovi antibiotici per gli ingenti costi e una, a loro dire, insufficiente redditività.

Morale delle diciotto case farmaceutiche più grandi, soltanto due non hanno abbandonato la ricerca su nuovi antibiotici. Se questo trend continuerà si stima che arriveremo a 10 milioni di morti l’anno a causa dei superbatteri e un costo della spesa sanitaria di circa cento trilioni di dollari in trenta anni.

Che fare?

Una nuova strategia antibiotica forse non è il modo migliore, più rapido e conveniente per affrontare le feroci legioni di superbatteri. Un’alternativa interessante potrebbe consistere nell’interruzione delle linee di comunicazione dei batteri. I batteri per aggredire l’ospite umano devono raggiungere una massa critica, una sorta di “quorum”.

L’idea è quella di produrre dei farmaci che mantengano la soglia batterica sotto questo numero critico evitando che si inneschi la malattia. Un’altra alternativa è arruolare i batteriofagi, una specie di virus che stana e uccide i batteri pericolosi. I fagi sono le bioparticelle più diffuse sul pianeta è hanno la capacità di prendere a bersaglio un singolo batterio.

Si tratta di individuare il singolo fago utile per contrastare una determinata infezione, operazione complessa e molto costosa che però risolverebbe alla radice il problema dei superbatteri. La crisi degli antibiotici è ormai preoccupante e quindi i sistemi sanitari pubblici, le case farmaceutiche e i governi devono agire subito, senza perdere ulteriormente tempo, altrimenti anche un’operazione banale come introdurre una protesi nell’anca o un’appendicectomia diverranno impraticabili perché il rischio di infezione sarà troppo alto.

Per saperne di più:

Alexander Fleming

I supebatteri sono fra noi

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Fonti:

Alcune voci di Wikipedia

Bryson, Bill. Breve storia del corpo umano

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