sabato, Maggio 4

Il tempo cosmico

Definire il tempo è sempre stata un’impresa alquanto problematica. Non citeremo una volta di più la celebre frase attribuita a Sant’Agostino. Quello su cui tutti concordano è che il tempo è misurato dal cambiamento, una rotazione terrestre, lo scorrere dei granelli di sabbia in una clessidra, etc. Esiste quindi un tempo cosmico?

Einstein però ci ha insegnato che il tempo è soggettivo e non assoluto e dipende dalla posizione e dal moto di chi lo misura. Se le cose stanno così come possiamo affermare che l’età dell’universo è di 13,72 miliardi di anni, con un margine di incertezza di 120 milioni di anni? Rispetto a chi o a che cosa possiamo asserire che il nostro universo ha questa età?

Alle origini del tempo cosmico

La chiave per rispondere a questa domanda è insita nell’uniformità dello spazio cosmico. La sostanziale uniformità dell’universo è risultata incontrovertibile dopo la scoperta della radiazione cosmica di fondo. Se i nostri occhi fossero sensibili solo a frequenze intorno a un centinaio di gigahertz, vedrebbero a qualsiasi ora del giorno o della notte una luce diffusa e uniforme nel cielo. È la radiazione cosmica di fondo.

Stabilito che l’universo è uniforme ed ha la stessa storia evolutiva sulla base di osservazioni condotte a scala di distanze significativamente grandi e trascurando le disomogeneità locali, allora lo scorrere del tempo è strettamente connesso all’evoluzione stessa dell’universo e non dipende dalla posizione o da un qualsiasi osservatore.

Questo assunto ha reso possibile ai cosmologi stimare che dal Big Bang sono passati circa 13,8 miliardi di anni, da qualsiasi punto si collochi un osservatore. Ma siamo sicuri che questa sia l’età effettiva dell’universo? Ancora una volta a creare dubbi e sconquassi nel modello Standard dell’universo è la “materia oscura”, questo elusivo e impalpabile elemento a cui diamo, inutilmente, la caccia da decenni.

Tutta colpa della materia oscura

Senza la materia oscura il Modello Cosmologico Standard non riuscirebbe a spiegare la formazione di galassie e ammassi galattici nel tempo calcolato e non potrebbe neanche spiegare come facciano le galassie attuali a non disperdersi sotto la spinta della propria rotazione. Purtroppo questa materia esotica è molto diversa dalla materia ordinaria che costituisce soltanto circa il 5% dell’universo.

La teoria della luce stanca

Pur essendo dotata di massa gravitazionale essa è del tutto invisibile, non emette né riflette luce, e quindi non può essere osservata con i rivelatori sensibili allo spettro elettromagnetico. Da sola costituirebbe circa il 27% dell’intero universo. Da quando Fritz Zwicky nel 1933, osservando il cluster di galassie della Chioma, per poter giustificare la sua conformazione dovette ipotizzare la presenza di massa “invisibile” oltre quanta aveva già stimato dalla luminosità delle galassie, la caccia a questa elusiva materia è stata incessante, quanto infruttuosa.

Zwicky

Con il tempo sono emerse nell’ambito cosmologico voci contrastanti che ne mettevano in dubbio la reale esistenza. Una delle più autorevoli è quella del fisico Rajendra Gupta dell’Università di Ottawa (Canada). Un suo studio pubblicato recentemente su The Astrophysical Journal, promette di minare le fondamenta stesse del Modello Cosmologico Standard. Il deciso attacco all’esistenza reale della materia oscura era già stato preparato da Gupta con uno studio pubblicato nel 2023, quello di quest’anno è l’affondo più deciso al modello che rappresenta la bussola principale per comprendere l’evoluzione dell’universo.

Secondo Gupta è possibile spiegare il comportamento di stelle, galassie e pianeti senza dover ricorrere ad un costrutto matematico come quello della materia oscura. Nello studio del 2023 Gupta ripescava la teoria della luce stanca di Zwicky, secondo cui lo spostamento verso il rosso della luce proveniente da galassie lontane sarebbe dovuto alla graduale perdita di energia da parte dei fotoni su vaste distanze cosmiche.

Un universo vecchissimo

Il geniale astronomo svizzero l’aveva proposta nel 1929 come possibile spiegazione alternativa al Big Bang, accanto all’effetto Doppler. A questa ipotesi di Zwichy, Gupta associò l’idea del premio Nobel Paul Dirac, secondo cui alcune costanti fisiche fondamentali che governano le interazioni tra particelle potrebbero essere variate nel tempo. Questa diversa prospettiva ridatava l’età del nostro universo, praticamente raddoppiandola. Così dichiarava circa un anno fa Gupta: «Il nostro modello di nuova concezione allunga il tempo di formazione delle galassie primordiali di diversi miliardi di anni, facendo sì che l’Universo abbia circa 13 miliardi in più rispetto a quanto si pensava finora».

La carta d’identità dell’universo passava quindi dai circa 13,8 miliardi di anni di vita, ai 26,7 miliardi stimati dal primo studio di Gupta. Nel suo nuovo studio il fisico indiano conferma quei risultati dicendo che gli hanno permesso di “scoprire che l’universo non ha bisogno della materia oscura per esistere. Nella cosmologia standard si afferma che l’espansione accelerata dell’universo è causata dall’energia oscura, ma in realtà è dovuta alle forze della natura che si indeboliscono con l’espansione, non all’energia oscura”.

Nel nutrito panorama degli articoli scientifici che contestano l’esistenza della materia oscura, secondo Gupta, il suo studio sarebbe l’unico che “pur eliminando la sua esistenza cosmologica è coerente con le principali osservazioni cosmologiche che abbiamo avuto il tempo di confermare”.

Per saperne di più:

Big Bang e radiazione cosmica di fondo

Big Bang

Fonti:

www.focus.it

Il Sole 24ore

alcune voci di Wikipedia

Giudice, Gian Francesco. Prima del Big Bang

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